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Sono anni che anelo bramando di ritagliarmi intensamente una deliziosa, quanto conveniente e piacevole villeggiatura, destinata e innanzitutto riservata a modo mio, accessibile e praticabile soltanto a me, senza rendere conto a chicchessia, senz’avvisare nessuno, lontano dal trambusto, distante dal fracasso e isolato di proposito dal parapiglia stressante e sfibrante giornaliero del frenetico modo di vivere quotidiano della metropoli dove soggiorno abitualmente, fatto inesorabilmente d’estenuanti orari da rispettare, pieno d’esaurimento e da deperimento, dove quasi tutto si svolge a cronometro, scandito da orari, composto crudelmente da ferree regole, disumanamente da inflessibili norme e in special modo, ahimè, malvagiamente da tanto nervosismo e penosamente da parecchia irritabilità, che in ultimo ti massacra lentamente, divorandoti e danneggiandoti sia il fegato quanto l’anima e la psiche. 

Basta, stavolta ho fermamente deciso, dopo tanto duraturo tergiversare ho stabilito qual è la meta prefissata da raggiungere, avendo già prenotato per tempo. L’amena e briosa località che ho scelto è un ridente paesino della provincia di Bolzano, appollaiato su d’un versante alpino, dove rannicchiato da lassù si domina una suggestiva e spettacolare vallata. Lo località in questione è la Val Martello, laterale della Val Venosta interamente compresa nel Parco Nazionale dello Stelvio, è giustamente rinomata tra gli amanti della montagna. Lo splendido ambiente alpino della Val Martello spazia infatti dai verdi prati del fondovalle alle vette glaciali del Gruppo dell’Ortles, tra cui spiccano le due cime del Monte Cevedale. Numerosi i rifugi alpini della zona, ottimi punti d’appoggio per esaltanti escursioni d’alta quota: chi s’accontentasse d’escursioni meno impegnative potrà passeggiare sui sentieri del fondovalle o attorno al Lago di Gioveretto, dove le sue acque smeraldine fanno da specchio alle imponenti cime e ai ghiacciai. Da quassù, infatti, c’è e s’avverte una beatitudine fuori dal comune, una pace senza precedenti, una gradevolezza panoramica d’insieme che t’ammalia e che silenziosa t’avvolge, vette alpine che ti catturano e un fitto bosco che ti lusinga l’animo e t’alletta la vista, un cielo lucente e terso, che s’imbatte mescolandosi al confine fra il cielo e la terra. 

Attualmente sono deliziosamente stravaccato a piedi nudi sul verdissimo e lussureggiante prato d’erba, accanto a me c’è una grossa e robusta panca di legno, installata là volontariamente in posizione strategica, dove si può ammirare uno stupendo pendio alpestre, inserito da madre natura in un tranquillo territorio idilliaco e naturale, circondato attorno con abeti rossi, abeti bianchi, larici e varie specie di pini. Credetemi, non scherzo, è impossibile trovare le parole giuste per descrivere la bellezza dei paesaggi che caratterizzano questa provincia, una regione incantata dove la natura regna e predomina sovrana. A prescindere dalla stagione, è sempre ricca di fascino. C’è chi la preferisce in veste invernale e chi, invece, predilige la primavera per assistere al risveglio della natura che, senza ombra di dubbio, offre uno spettacolo unico, che si traduce in un tripudio di colori che molto ricordano le pennellate d’un dipinto. 

La baita, o meglio il rifugio dove soggiornerò, è precisamente incastrato nella maestosità del paesaggio limitrofo, il punto mediano del ritrovo generale è occultato in una boscaglia di abeti, giacché gli esigui frequentatori sono disseminati nell’attrezzato circolo poco più in basso, peraltro con nessun’intenzione di raggrupparsi né d’associarsi. In questa stagione, siamo in effetti verso la fine del mese di luglio, alla sera, sia la luna, che il firmamento, che la lontananza, il grado di calore e le stelle sono sempre più trasparenti e luminose. Io, osservando quelle meraviglie, non voglio lasciare la mia personale panca e in quella circostanza consumo spontaneamente la leggera cena accomodato là con dei panini accompagnati con dell’ottimo speck locale e con un’eccellente birra del luogo. Successivamente, alquanto appagato rientro con pigrizia nel rifugio che m’hanno attribuito e sfrutto l’occasione per riordinare il mio essere approntandomi per passare la notte. 

Sono nel mentre già disteso sul mio comodo giaciglio che esamino le illustrazioni dei numerosi opuscoli illustrati, eppure bramo a tutti costi rimirare autonomamente da quassù la meraviglia e la pienezza che ho nelle vicinanze, perciò mi sporgo sul verde pascolo tuffandomi nello stupefacente miraggio della notte disabitato e libero da contatti dell’uomo, tuttavia, in modo insperato intercetto una serenità anonima assai originale, perché è come uno sbraito dilaniante, benché represso e ovattato. 

Io avverto, che molteplici tremolii rincorrono il mio dorso smarrendosi in ogni parte, mentre la mia guardinga espressione adesso intimorita capta e insegue la provenienza della bruttissima afflizione affibbiata e imposta a tutta quella quiete, facendosi istintivamente condurre dal senso dell’orecchio incontrando l’enorme e alta legnaia, collocata in bella vista nella discesa. Pure quella grande legnaia accanto a un piccolo fienile, invero, nella sua caratteristica e nel suo distintivo equilibrio, risulta ben incastrata nel paesaggio circostante. Due finestre di medie dimensioni scalfiscono la linearità della costruzione, perché un bagliore tenue e scialbo, non particolarmente brillante, viene rapidamente effuso da una tendina larga e dalla lontananza che mi disunisce da lei. 

Quello che percepisco in profondità però, e che, questi esigui e irrilevanti istanti di calma, fanno schiera alle riflessioni che mi roteano mulinando in ogni parte della quiete appena riconquistata. Subito dopo, però, scricchiolii penetranti, diatribe intense, spettri ottenebrati che duellano, che si pedinano avventandosi vicendevolmente l’una contro l’altra, elementi che s’attorcigliano dimenandosi, assieme agli strilli lugubri d’avvisaglie e di panico che s’accatastano, i miei brividi di paura in tale frangente s’ampliano, diventando implacabilmente daccapo ulteriormente gelidi. Quello che però istintivamente constato e che dentro me stesso al presente distinguo, e che alberga il disorientamento, abita l’indiscrezione, dimora lo stimolo congenito di porgere il mio soccorso alla perseguitata designata di turno.  In quella circostanza, infatti, m’avvio con irruenza come un burattino non governato né puntellato né spalleggiato, perché accompagnato da una trascurabile deduzione m’inerpico su d’un piccolo abete per vedere meglio, correndo il rischio di cadere come un cretino, ma da là vedo ogni cosa. 

In quella precisa e inequivocabile azione, le unghie si conficcano fervide nei muscoli, il malvagio appioppa entusiastiche e vivide squilibrate percosse sull’umile martire, assalitore e assaltato nel contempo s’appiccicano aggredendosi e trafiggendosi con degli azzanni brutali, le grida selvagge, animalesche e dissolute sia dell’uno quanto dell’altro, sono concomitanti e integrative, bollando in tal modo l’impetuosa, focosa e sfrenata fermezza degli avversari, ciò nonostante tutto si capovolge, perché il criminale diventa martire e l’oppressa diventa sicario. 

Adesso le scandite spinte gliele affibbia lui, malgrado ciò, qualcosa non mi quadra, qualcosa non va. In quell’occasione mi sposto collocandomi meglio sul ramo del piccolo abete, perché osservando meglio sono in grado alla fine di scrutare meglio la scena: riprodotte in maniera eloquente ed espressiva dalla luce, sulla tendina compaiono delle gambe dove dovrebbero esserci delle braccia, un sedere dove dovrebbe trovarsi una testa. Io mi scrollo, mi dimeno, tento concitatamente di tornare in me, di congetturare, di desumere, azzardando di sgrovigliare l’impiccio, proponendo di snodare quell’intrallazzo che mi turba, ben presto però il mio sguardo afferra e comprende determinando e valutando tutto al meglio, perché altroché sicario, ma quale martire, perché quelle che si possono intravedere e distinguere per bene, quelle battute, invero lascive e furibonde, con quei lussuriosi affondi, non sono altro che le spinte sregolate, viziose e incontinenti del cazzo d’un maschio sul fondoschiena d’una deliziosa femmina, del pelame pubico d’un affamato maschio su quelli di un’ingorda femmina, mentre in precedenza era l’opposto, l’insaziabile femmina che padroneggiava il maschio sovrastandolo. 

Entrambi attualmente sbraitano, s’azzuffano, s’attorcigliano competendo, s’artigliano rivaleggiando, strillano, godono entrando in lizza addentandosi con le relative figure svestite, rumoreggiando e acclamando frenesie animalesche, mugugnando fragorosi orgasmi e bofonchiando lussuriosi richiami con un impeto che li stravolge, con una scurrilità e con una sconcezza incontinente, deformando, traumatizzando e in ultimo percuotendo intensamente in tal modo la pacata e flemmatica tranquillità della notte quassù. L’animosa, l’incontrollata e la dissoluta sfrenata veemenza di quel tipo di benessere sessuale, quella libidinosa e concupiscente pienezza d’indisciplinatezza adesso si disattiva a rilento, disinnescandosi e smorzandosi, in ultimo spegnendosi. Adesso c’è silenzio. Un bagliore di luminosità spicca al momento decantando il colore verde dell’erba di quel prato, di fronte alle finestre allargate dalla grande legnaia del sicario, perché all’istante compaiono due aloni e subito dopo due persone nude uscendo che s’afferrano per mano. 

Come due personaggi biblici ecco che spuntano, considerati il primo uomo e la prima donna frutto della creazione, escono e si fermano là per un istante. In effetti quassù è come un paradiso, poiché ben presto infilano immettendosi nell’empireo terrestre della notte, svagandosi appagati e contenti, spogli e totalmente sguarniti nella frescura ammirando il cielo, spiattellando la felicità, strillando il piacere, ironizzando dell’aria fresca che li rattrappisce, sbraitando la letizia e la loro vivacità semplice e reale al compagno vento, tallonandosi allegri, brillanti e canzonatori. Adesso lui si ferma, afferra il cazzo tra le mani e lo indirizza verso il firmamento, si balocca un po’, lei invece vaga spassosa e beata, galoppando attorno con le braccia aperte, probabilmente sta realmente volteggiando, in seguito si blocca per qualche istante, dopo ricompare annunciandogli: 

“Che delizia, che cosa stai combinando? Mi piace vederti quando fai così, sei seducente e stuzzicante” – gli riferisce lei sedotta e intrigata. 

“Cara bellezza mia, m’appresto a diffondere piccole quantità del mio seme, l’embrione dell’esistenza” – le enuncia lui, masturbandosi il cazzo e squadrandola negli occhi. 

“Fantastico, molto interessante, quando avverrà la crescita completa, quando ci sarà infine la raccolta dei frutti?” – lo stuzzica lei alquanto vogliosa, schernendolo e dileggiandosi, sfiorandogli il cazzo con la mano e allontanandosi. 

“Suppongo verso la fine d’aprile, il mese dell’attrazione, dell’affetto e della lusinga, dove tutto germoglia, fiorisce e parla con i colori e con tutte le fragranze della natura” – espone lui in modo spensierato e malizioso facendole segno di seguirla. 

L’assenza di rumori, il gusto intemperante e profondo della gratificazione, perché entrambi benché ansimanti e leggermente intirizziti, ritornano sfrecciando lestamente all’interno della cosiddetta grande legnaia del sicario, il talamo recondito della scostumata e dell’incontinente lussuriosa bramosia, d’altra parte propizia complice e protettrice connivente, del loro autentico e spontaneo piacere sessuale, indubbiamente grezzo, certamente sgarbato, senz’altro istintivo e arcaico, sincero e opportuno sebbene violento, perché fa rivivere in loro dal principio la depravata e sfrenata meraviglia dei sensi. 

Altroché, per l’appunto, ebbene sì, perché è proprio qua, nei pressi dell’incolpevole abete, peraltro silente osservatore e incauto raccolto testimone, dove sono al presente aggrappato e dal quale non vorrei scendere, per non schiacciare né per disonorare né per oltraggiare taluni semi nell’effluvio delle piante erbacee da poco recise, che tutto è accaduto. 

Là di fronte, infatti, è partito tutto, là è iniziato il farneticare lussurioso e il vaneggiare dei corpi famelici e avidi dei due giovani e briosi contendenti, nella quiete del crepuscolo che mi circonda, nelle adiacenze della grande legnaia, peraltro diverbio e contesa di passione, che ha ospitato sia il sicario che la vittima, demolendo e distruggendo il silenzio della notte che bramavo. 

In fin dei conti però poco importa, per me non è un dramma né una sventura, perché io recupererò ben presto la mia quiete e riconquisterò il mio sospirato relax, perché per loro due, là dentro nella grande legnaia, quello che al presente avviene è puro, salubre e indiscusso piacere della carne, è lo scopo lapalissiano e inoppugnabile dell’esistere, la vita che incontrastabilmente si sviluppa espandendosi, che chiaramente si manifesta, ovviamente continuando. 

{Idraulico anno 1999} 

 

 

 

Autore Pubblicato il: 1 Marzo 2020Categorie: Racconti Erotici0 Commenti

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