Nanà quell’esperienza l’avrebbe ricordata per sempre, con piacere e con nostalgia.
Il pene di Giangi, enorme e nelle sue mani, riprendeva vigore rapidamente sotto le sue sollecitazioni. Come un cobra rizzava la testa, gonfiando il cappuccio; diventava un salsicciotto appetitoso, tanto che lei non poté fare a meno di avvertire gli stimoli che non erano proprio della fame.
Lo ingoiò tutto d’un colpo. L’avrebbe provata ancora, a distanza di tempo, la consistenza del simil-insaccato riempirle la bocca, con sua crescente irrefrenabile soddisfazione.
Aumentava di volume, come se volesse scoppiare. Ma, prima che assumesse dimensioni imprevedibili, lei lo ingoiò, iniziando a imprimergli il movimento a stantuffo. Le dava un senso di nausea, di rigetto appena arrivava in fondo alla gola, ma lo vinceva ogni volta e andava avanti, in attesa che le riempisse la bocca di quel liquido vischioso, acidulo, ma con un che di zuccherino che addolciva il palato, contrastando con il caratteristico odore che tendeva all’amuchina.
La prima volta, le mascelle dilatate le dolsero, ma continuò stoicamente. L’agitò tanto fino al punto che un violento getto le tolse il respiro. Annaspò. Tentò di tirarlo fuori dalla bocca, ma non poteva per l’irruenza che lui imprimeva all’attrezzo. Era come se un gigante le tenesse ferma la testa, impedendole qualsiasi possibilità di fuga. Mentre la irrorava, le urlava qualcosa che la concitazione del momento non le consentiva di capire.
Un torrente tumultuoso si riversò nella gola, seguito dallo stomacante sapore acido che le dava l’urto del vomito ogni volta che cercava d’inspirare col naso. Tossì nonostante l’ingombro; lo stomaco le urlava contro; annaspava. Ma lui non cedeva e la costringeva alla incomoda posizione, muovendosi sempre più rapidamente nel suo andirivieni. Le sembrò durasse ore. Tossiva ed era scossa dai conati di vomito che le rivoltavano lo stomaco; lui si rese conto che la stava affogando, mentre lacrime involontarie le solcavano le guance. Atterrita si agitò freneticamente in cerca di aria. Quei lunghi istanti di disperazione si interruppero di colpo. Non ebbe più contezza di nulla.
Giangi ricordava solo di avere provato la sensazione che una sega elettrica gli stesse affettando il cazzo e aveva urlato di dolore, ma, soprattutto, di piacere, mentre spargeva il seme tutto intorno. Cercava, allo stesso tempo, sollievo alla ferita che insieme al sangue vomitava sperma a più non posso, comprimendola con quello che aveva sotto mano, cioè la bocca che conteneva il suo membro assatanato di piacere. Avvertiva la goduria in un crescendo che vinceva la paura di restare dissanguato da un masochistico disegno edonistico.
S’era svegliato col cazzo che sporgeva dalla bocca di lei. Nanà era esanime, sigillata al ventre di Giangi. Le estrasse la verga dalla bocca. Le dette degli schiaffi sulle guance per farla riavere, ma senza effetto. La rivoltò, applicò le labbra su quelle di lei e, al colmo della disperazione, le praticò la respirazione artificiale, impiastricciando la sua del liquido colloso che le sigillava la bocca di cui conosceva molto bene la provenienza.
Nanà, dopo due o tre tentativi, sobbalzò, riavendosi. Tossì, girandosi di lato; vomitò un liquido biancastro che scivolò, vischioso, per terra. Tossì ancora. Si riebbe; intontita chiese: “Che è successo?”, ma lui era scoppiato in un pianto liberatorio.
Nanà si “sollazzava” col suo pollastro, correndo il rischio di porre, accidentalmente, fine alla propria esistenza terrena, ma c’era qualcun altro che nello stesso momento se la stava spassando.
“Cinzia, sei dolcissima!” Roby se la stava stropicciando, seduto sul divano di casa Rampi. Le cose erano andate avanti in fretta senza approfondire per colpa di chi, ma, sicuramente, per merito di chi aveva preso l’iniziativa. Cinzia non s’era lasciata sfuggire l’occasione per farlo cadere nella rete e lui non era poi un santo che scacciava il diavolo per proteggere la propria castità in assenza della moglie. D’altronde glielo aveva pur fatto capire con quella frase sibillina. Così s’erano ritrovati a quel punto fra un drink e l’altro, una pizza e una birra.
Quando Cinzia voleva qualcosa non si arrestava davanti a niente con gli “argomenti” idonei ad imporre la sua visione delle cose. Era bella, anche se non eccezionale; era fornita di una spigliata comunicativa che si trasmetteva al suo interlocutore con l’immediatezza di uno shrapnel inglese. Lui aveva il suo fascino, anche se no spiccava per fermezza dei propositi. Era un gregario, un bravo gregario, ma senza troppe iniziative. Insomma, si ripeteva il copione già visto con la moglie. Ma lui era contento così e seguiva sempre chi gli teneva la cavezza. D’altronde ne sapeva trarre buon frutto.
Dopo la partenza di Nanà, Roby aveva ricevuto la telefonata di Cinzia che gli aveva proposto di uscire insieme la sera stessa, dato che era sola perché, combinazione, anche il suo compagno era fuori sede. Roby la conosceva bene perché era andato varie volte in ufficio della moglie, ma era una conoscenza superficiale che non s’era mai sviluppata. Ne fu piacevolmente sorpreso. Da bravo gregario, acconsentì. La sottile vendetta di mafiosa cominciava a concretizzarsi.
Era furiosa con Nanà perché aveva ben immaginato che quella sera si sarebbe scopata l’uomo oggetto dei suoi affanni, a cui lei aveva dedicato tante attenzioni della sua vita lavorativa. Gli faceva filarino sin da quando era entrata in quell’ufficio senza mai arrivare al concludere qualcosa e questo la innervosiva. Quella troia doveva imparare a starsene al posto suo. Marisa non aveva legami santificati da nessun vincolo, come Nanà, e poteva andare di fratta in fratta a cogliere l’erba che più le piaceva.
Capiva che Giangi era un uomo sposato, ma non gliene fregava nulla, avendo capito che a lui non dispiaceva cedere all’avvenenza dell’eterno femminino. Voleva solo portarselo a letto perché gli piaceva. “Fanculo il resto!” – era il suo motto. Una o due botte a settimana le andavano bene. Ed ecco che si presentava quella “stronza” che non valeva un cazzo e che le soffiava il premio dei suoi anni di sacrificio e di duro lavoro, in tutti i sensi.
Era giusto che le rendesse la pariglia. Doveva fottersi il maritino che lei tanto adorava. Quello stronzetto di Roby, così elegantino e fichetto; l’avrebbe sedotto e abbandonato. Aveva capito che era una pecora che seguiva il capo-mandria e lei aveva le palle per attirarlo con i suoi respingenti di ultima generazione ben oliati, in grado di assorbire qualsiasi urto, per violento che potesse essere, nonché servire da gancio di trazione per i collegamenti elettrici alla motrice, cioè lei stessa.
Era un perfetto congegno per far sprofondare fra le cosce morbide e accoglienti qualsiasi fuco in amore. Il povero Roby ne sarebbe rimasto imbrigliato e lei avrebbe potuto girare il coltello nella piaga di quella “stronza”, provocando la sua gelosia. A questo avrebbe pensato dopo. Sapeva già come fare per insinuare il sospetto in lei. Ora basta, però. Doveva riempire il bicchiere e goderselo tutto, centellinando il dolce liquido della vendetta.
Lo attirò su di sé. Lui le cadde sui seni turgidi, stropicciandoli. Lei dette a vedere che si tirava indietro e lui stava per retrocedere, rispettoso. Ma lei gli si avvinghiò alla testa e gliela tenne ferma, mentre provocava con le sue le labbra di lui a piccoli scatti, a morsetti sempre più concitati, fino a stamparsi a ventosa; fino a togliergli il respiro. Rifiatò e poi gli spostò le mani sui seni. Se fossero stati di caucciù non sarebbero stati così elastici. A lui sembrava di essere arrivato al paradiso terrestre.
La camicetta di Cinzia, negligentemente sbottonata, s’afflosciò alla vita lasciandola in reggiseno, mentre lei gli sollevò la maglietta, sotto la quale il petto del maschietto era nudo. Gli palpò i pettorali: “meno male, solo qualche pelo!” – pensò. Apprezzò i bei capezzoli, tondi e grossi; poi scese sullo stomaco,quasi implume. Ne odiava gli uomini ipertricotici, gli davano di sporco. Scese sotto la cinta, slacciandola e procedendo nell’ispezione. Lui si contorceva per il sollucchero che gli procurava. Gli offrì le labbra; si scambiarono morsettini e approfondimenti linguali, mentre Cinzia si dedicò a ravanargli le mutande nella macchia mediterranea che lussureggiva alla ricerca dell’eremita della valle solitaria.
E il tirannosauro c’era, anche se non nella forma migliore. Si rizzò appena lei lo sfiorò, mentre, secondo i suoi calcoli, avrebbe dovuto già da tempo essere ritto al suo posto sulle zampe posteriori, pronto all’attacco. Ma non se ne ebbe a male. Ciascuno ha i suoi tempi. È meglio, poi, se tarda un po’ a mostrare la grinta. Poteva giostrarlo a suo piacere. Aveva già capito che non si trovava davanti a uno sciupa femmine. Lo prese per il suo verso. Mostrò d’essere piacevolmente sorpresa. Lui gongolò e ciò contribuì a ringalluzzirgli il membro, facendoglielo alzare piuttosto vigorosamente.
Cinzia colse la palla al balzo, per così dire. Cominciò a sbobinarlo leccandoglielo come un cono gelato. E più gli titillava con la lingua il frenulo e più lui impazziva di piacere. Per la prima volta in vita sua sentiva di essere un uomo. Dopo averlo fatto contorcere di piacere, Marisa passò a stringergli i capezzoli e chiese che anche lui le ricambiasse il favore. Roby non riusciva a tenere a lungo la tenaglia delle sue dita sui capezzoli di Marisa, perché lei era così rapida nell’eseguire il “tirebouchon” con le mani agili e più piccole che lui minacciava di “venire” ad ogni torsione. Solo la bravura di lei evitò l’esplosione della canna tonante.
Non era mai stato così lungo e grosso come nel momento in cui Roby andò, a fiuto, alla ricerca del polpo nella tana. Doviziosa, nella sua protuberanza fra le cosce, pulsava la Bernarda, un essere intelligente fornito di vita propria anche se arruolato come organo in un corpo femminile. La proboscide di Roby si fiondò in avanti e cominciò a conficcarsi in quello stretto budello, facendosi largo con la sua testata nucleare. Entrambi sentivano lo strazio del desiderio: l’uno, di esplorare le profondità delle visceri, e l’altra di spolparselo tutto mentre sprofondava. Spingevano e s’agitavano entrambi e, ben presto, arrivarono alla fine della corsa. Il serpe aveva preso possesso della tana, ma il tasso lo tratteneva col suo morso tenace.
L’andirivieni fu lungo e stressante per entrambi, ma ne trassero pari vantaggio. Erano un corpo solo a due teste e quattro arti, impegnati tutti a frizionarsi reciprocamente ovunque arrivassero con qualsiasi parte del corpo; a tastarsi e ingarbugliarsi, avvinghiarsi l’uno all’altro, destando sicuramente l’invidia degli octopus vulgaris con i loro otto tentacoli. Finché non caddero allacciati sul divano, esausti, ma soddisfatti.