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C’era una volta una cattedrale dalle guglie nere, in stile gotico, costruita su una rupe, quasi a picco su di un mare tempestoso.
I flutti erano bianchi e spumeggianti, talvolta si levavano dall’abisso e sembravano toccarla.
Di tanto in tanto, nella cattedrale si celebravano dei funerali. Le bare erano accompagnate da lunghe processioni tristi, affollate da gente incappucciata, tutta vestita di nero, i ceri ardenti bruciavano nell’etere grigio, brumoso, confuso, spandendo all’intorno la loro luce vaga.
Mi sembra ancora di udire dei canti di monaci e di chierici. Erano melodie cupe, fatte di suoni rochi e di parole latine, piene di tormento e di mistero.
Una volta, in quei paraggi, mi era capitato di vedere una vecchia sdentata, mentre sgozzava un’oca. L’aveva appesa per le zampe e le tagliava il lungo collo con un pugnale affilato. Ah, che visione macabra e sanguinosa! Il sangue dell’animale bagnava il vestito logoro della vegliarda, che sghignazzava divertita.
Di tanto in tanto, uno dei preti della cattedrale moriva.
Il volgo diceva che a provocare quelle morti fossero i fantasmi del mare, che nelle notti di luna piena salivano dagli abissi e facevano precipitare qualche uomo di chiesa dall’alto del promontorio.
L’avrebbero ritrovato il mattino dopo, senza vita, su uno degli scogli, la testa fracassata, il corpo orribilmente deformato.
A volte la morte andava a prendersi qualche fedele, all’interno della cattedrale gotica, che sembrava stregata. Le sue nere fauci non perdonavano ed avrebbero fatto paura a chiunque. Lo sventurato a cui la sorte aveva riservato quella fine sarebbe stato ritrovato senza vita da qualche chierico vestito di bianco, il collo tagliato da un capo all’altro, gli occhi sbarrati, completamente macchiato di sangue.
Si mormorava vagamente che l’autore di quei delitti fosse il diavolo in persona. Nessuno aveva mai visto nulla, nessuno aveva mai assistito ad alcuna di quelle scene di terrore.
Dall’alto del suo pulpito, il vescovo predicava contro l’orrore del delitto e l’infamia della menzogna, malediceva i seminatori di morte e di violenza, che erano persone senza volto, pronte a mascherarsi dietro a cappucci neri e a lunghi manti color della pece. Forse, erano persone che venivano dagli inferi. I loro crimini erano più atroci delle fiamme dell’inferno.
E sempre il vescovo andava tra la folla, girava tra le baracche del vicino villaggio, chiedendo a destra e a manca chi fosse l’autore dei delitti di cui vi narro. Parlava con le vecchie, le giovani madri, gli anziani dalle lunghe barbe bianche, senza mai avere risposta alcuna.
Dovete sapere che nella cattedrale gotica non si consumavano soltanto degli omicidi. V’erano persino degli stupri, perpetrati ai danni delle giovani donne, che, inginocchiandosi sulle panche di legno, mostravano fatalmente le loro gambe formose e le loro mammelle morbide.
Le violenze carnali si consumavano sui prati, sulle nevi invernali, a volte persino nei confessionali. I malvagi dai volti mascherati amavano torturare i corpi nudi delle donne con le fiamme delle candele, con la cera bollente, oltre che con le loro lingue, che dovevano essere taglienti e biforcute. Alcune restavano incinte e piangevano per la loro verginità perduta.
Non vi ho ancora detto che certe vecchie, per invidia verso le più giovani, le chiudevano vive nelle botti, prima di darle alle fiamme o di gettarle in mare, sghignazzando.
Allorché si scopriva l’autore di qualche delitto minore, come ad esempio un furto di galline, o si sorprendeva un ladruncolo con le mani nel sacco, il popolo si radunava intorno allo sventurato e lo linciava. Il corpo suo veniva fatto a pezzi dalle zanne del volgo, il che era assai peggio di qualsiasi condanna alla tortura e alla pena capitale.
Eppure, nella cattedrale si consumavano anche degli amori bollenti. I giovani si baciavano ardentemente sulla bocca, nel grigiore delle nebbie, che salivano dal mare; talvolta si davano appuntamento sulla scalinata grande, oppure in una delle torri campanarie, i cui usci erano quasi sempre aperti e le cui scale serpeggianti costituivano sovente teatro di incontri amorosi appassionati.
Le ragazze avevano quasi tutte i capelli biondi o rossi, non arrivavano vergini al matrimonio e non confidavano a nessuno le loro avventure amorose clandestine.
Mi ricordo di una di loro, che si chiamava Veglia e portava una chiave d’oro nascosta dietro a un ciondolo. La usava per entrare nella cripta, dove consumava col suo amato dei rapporti sessuali infuocati. Molti morti venivano sepolti sotto la cattedrale, dove c’erano ragnatele bigie, tombe, poche luci diffuse, sparse dalle fiaccole accese.
Era lì che Veglia dava appuntamento al suo amato. Entrambi conoscevano i nomi degli assassini, ma non li avrebbero rivelati nemmeno al vento.
Veglia ce l’aveva irsuta ed era fiera di mostrarla al suo compagno, di farsi leccare fino a notte fonda, di grugnire, di emettere versi selvaggi, là dove sapeva che nessuno avrebbe potuto sentirli. Il maschio la tormentava, la possedeva carnalmente, le strappava i vestiti di dosso, glielo insinuava dappertutto, come avrebbe fatto un gorilla.
Una volta, vidi Veglia mentre inseguiva allegramente un’oca, nel cortile di una delle case del villaggio. Volle sentirla sotto i denti, per poi liberarla, dopo aver goduto brevemente dei suoi palpiti.

Autore Pubblicato il: 30 Dicembre 2008Categorie: Racconti Erotici0 Commenti

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