La cella era illuminata solo dalla pallida luce della luna che penetrava fioca da una finestrella quadrata posta in alto, a circa due metri e mezzo d’altezza.
Il pavimento in ruvidi lastroni quadrati era sporco, sudicio e le pareti di pietra, grigie e tetre, tutto contribuiva a rendere ancor più penosa quella notte, l’ultima, alla donna sdraiata sul rude tavolaccio nudo.
Le lacrime le scendevano silenziose sul volto, mentre riudiva, nei suoi pensieri angosciosi, la voce beffarda e tetra del giudice Dorval, presidente del tribunale del Comitato di Salute Pubblica della citta di Vendòme.
” Cittadina De Lorsange, viste le carte in nostro possesso etc, etc, visti gli atti di accusa etc, etc, questo tribunale vi condanna per i crimini commessi, in qualità di appartenente alla casta dei nobili, contro la libertà, i diritti e il bene del popolo. Il verdetto è la morte, e la sentenza verrà eseguita domattina in place de Grève alle otto.”
Un processo durato esattamente tredici minuti, senza appello, senza difesa.
Nella Francia del 1792 accadeva purtroppo questo e altro, e benchè la contessa Milène de Lorsange avesse tentato in tutti i modi di sfuggire alla cattura, era stata arrestata a Vendòme, nella bassa provenza. Tentava di raggiungere la Spagna per porsi in salvo, ma era stata riconosciuta e tradotta poi in carcere a Parigi nella prigione femminile delle Conciergerie.
Adesso stava sdraiata sul tavolaccio e piangeva, pensando a quella che sicuramente era la sua ultima notte, piangeva e ripensava al suo passato, alla sua vita spensierata, alle feste, ai balli a corte, alla vita passata con il marito, ai suoi figli di cui ignorava la sorte.
Aveva trentanove anni, Milène de Lorsange, portati ancora molto bene. Dopo la morte di suo marito, il conte Auguste de Lorsange, stroncato da un infarto qualche anno prima, molti pretendenti si erano fatti avanti, attirati oltre che dalle sue ricchezze, anche dal suo aspetto ancora giovanile ed attraente. Era una donna alta con il portamento austero ed elegante, un viso grazioso e aristocratico, un seno florido e ancora sostenuto e dei fianchi opulenti, che lasciavano intendere dolci promesse d’amore. In quel momento indossava ancora il suo abito da viaggio e calzava ai piedi scarpette col tacco, fermate da un nastro di velluto nero.
La notte ormai stava volgendo al suo naturale epilogo e una pallida luce cominciava già ad imporporare l’orizzonte, il suo tempo stava per esurirsi, lei lo sapeva, e niente poteva ormai fermare l’ineluttabilità della sua sorte. Nessun aiuto, nessuna intercessione sarebbe venuta in suo soccorso. La rivoluzione aveva sovvertito leggi e gerarchie e il popolo era assetato di sangue, sangue di nobili e di titolati e ormai non si contavano più le teste finite nel paniere della ghigliottina.
La porta della cella, a un tratto, si aprì con un orrendo cigolio, facendola sobbalzare atterrita, e due uomini rozzamente vestiti entrarono. Uno dei due aveva un cesto in mano.
Posarono in un angolo una lanterna e la guardarono sogghignando.
– Cittadina de Lorsange, dobbiamo prepararti, alzati e vieni qui nel centro della cella! – le disse scoprendo i denti marci uno dei due.
Si alzò tremante e si avvicinò ai due uomini che la squadrarono con sguardo indifferente. Uno dei due si avvicinò e le afferrò il mento.
– Apri la bocca, nobile troia, fammi dare un’occhiata – le ingiunse truce e lei si affrettò ad ubbidire.
L’uomo le osservò attentamente l’interno della bocca e alla fine la lasciò, umiliata e tremante.
– Niente denti d’oro, amico – disse poi rivolto all’altro. – Andata male stavolta. –
– Controlliamo se ha qualcosa addosso, potrebbe nascondere del denaro da qualche parte – rispose il compare. – In fondo stava scappando quando l’hanno presa e il denaro serve sempre in una fuga. –
– Già, hai ragione – convenne il primo e si rivolse nuovamente alla donna. – Hai sentito cittadina? Dobbiamo perquisirti, spogliati! –
– Vi prego, signori, abbiate pietà – implorò la contessa torcendosi le mani. – Mi hanno già perquisita al momento dell’arresto. Tutto quello che possedevo mi è stato requisito e non ho più nulla con me addosso. Non infliggetemi anche questa vergogna! –
– Niente da fare, cittadina, dobbiamo essere sicuri che i nostri colleghi abbiano fatto un buon lavoro, per cui spogliati con le buone e non fare storie, altrimenti ti spogliamo noi, – e sfoderò un ghigno crudele, – e per te sarà peggio! –
La donna capì di non avere scampo, e, chiudendo gli occhi per la vergogna, iniziò a slacciarsi il corpetto che ben presto si tolse dandolo in mano all’uomo che la fissava con sguardo truce. Questi senza neanche dargli un’occhiata lo gettò sul tavolaccio e aspettò il proseguimento della svestizione. La prigioniera, mostrando gesti maldestri per l’abitudine a essere servita da una cameriera, iniziò a sciogliere, con dita impacciate, i lacci e le stringhe che sostenevano la lunga gonna, finchè questa cadde ai suoi piedi rimanendo con l’ampia sottogonna di lino bianco e il bustino che le stringeva la vita.
L’uomo le fece cenno di voltarsi e lei obbedì. Sentì mani nervose e rapaci scioglierle i lacci del busto che dopo qualche attimo finì ai suoi piedi. Fu poi la volta del sottogonna ad essere abbassato senza grazia e lei rimase alla fine con i mutandoni di seta lunghi fino alle ginocchia e la camiciola di lino che le copriva il seno.
Si voltò tremante, credendo che la sua vergogna fosse finita, ma dallo sguardo rapace dei due uomini capì che forse era solo all’inizio del suo calvario.
– Avanti, che aspetti? finisci di spogliarti! – le ingiunse l’altro uomo.
– Ma.. .. tutto? devo levarmi tutto? –
– Certo, dobbiamo controllare bene! – rise l’uomo.
– Ma. .. perchè… perchè?… Non ho niente con me, ve lo giuro, dovete credermi! – esclamò torcendosi ancora le mani.
Adesso sapeva che i due non si sarebbero fermati davanti a niente e temeva il peggio.
– Obbedisci senza discutere o sarà peggio per te. Ricordati che fra due ore sarai morta e se sul palco dell’esecuzione ci arrivi con un occhi nero o qualche livido nessuno ci farà caso. –
Milène de Lorsange parve per un attimo capitolare, poi forse ricordando il suo rango e il suo lignaggio, sollevò il capo e li sfidò con lo sguardo.
– No! Non mi spoglierò davanti a due volgari ladroni. Fate di me ciò che volete, ma non ubbidirò ai vostri ordini! –
– Bene, se è questo che vuoi… – disse quello più vicino a lei, e le mollò un terribile ceffone sulla guancia che si colorò immediatamente di un bel rosso porpora.
La donna barcollò per il colpo e subito dopo si piegò in due per un pugno maligno che si affondò sul suo ventre. Boccheggiando e senza fiato cadde sulle ginocchia, vomitando un fiotto di bile sul pavimento. Non aveva neanche fiato per lamentarsi e tentava disperatamente di aspirare un po’ d’aria. Un calcio violento le arrivò su un fianco, facendola stramazzare per terra, dove si rattrappì in posizione fetale, gemendo e tenendosi stretto l’addome.
I due uomini la sollevarono bruscamente da terra e presa una robusta corda dal paniere che avevano portato con se le legarono i polsi, facendo poi passare l’estremità libera attorno ad un anello arrugginito che oscillava appeso al tetto in modo che rimanesse ritta, bloccarono la cima a un anello infisso nella parete e dopo ghignando si volsero verso la donna boccheggiante.
Si avvicinarono a lei ed iniziarono a schiaffeggiarla violentemente finché non le ruppero il labbro superiore ed il naso: rivoli di sangue iniziarono a scorrere copiosamente sul volto della donna. Agli schiaffi seguirono calci e pugni in ogni parte.
Poi afferrarono due fruste che giacevano arrotolate nel paniere, si avvicinarono a lei ed iniziarono ad inveire atrocemente sul suo corpo: iniziarono a fustigarla.
Ad ogni colpo la contessa di Lorsange urlava come una disperata e si contorceva dal dolore; colpo dopo colpo la sofferenza aumentò fino a divenire insopportabile e ogni staffilata era un’atroce fitta di dolore che le percorreva il corpo. Alla fine teneva la testa indietro ed era ormai quasi immobile e semicosciente, lamentandosi continuamente.
Quando i due aguzzini si stancarono, la donna aveva il corpo martoriato e ricoperto da numerose ampie strie sanguinanti e dolorosissime, il corpetto e i mutandoni erano quasi a brandelli, e in particolare la faccia era omogeneamente ed estremamente gonfia e di colore rosso-violaceo. Gli occhi tumefatti, ormai rimanevano quasi chiusi, il naso aveva almeno triplicate le sue dimensioni ed un pezzo dell’orecchio destro era saltato.
Mani violente e rudi l’afferrarono, la rigirarono, le strapparono i resti della camiciola, i suoi seni bianchi e marmorei, venati di sottili venuzze bluastre, balzarono fuori e si mostrarono agli occhi allupati dei due uomini. Le mammelle apparivano gonfie per le frustate e cominciavano a divenire violacee e rigonfie di sangue: un capezzolo, il destro, era quasi completamente saltato ed al suo posto vi era un’ulcerazione, l’altro era notevolmente allungato.
Gli uomini le sciolsero i polsi dalla corda e la gettarono a terra, dove giacque bocconi, lamentandosi e tremando tutta. Uno dei due, con un calcio la rivoltò e poi, abbassatosi, le si mise a cavalcioni sullo stomaco. Cominciò a strapazzarle le mammelle, premendole, schiacciandole, schiaffeggiandole, impastandole, tirando e stringendo il capezzolo rimasto fino a farla urlare. Il dolore era violento, le mozzava il fiato, Poi la mano dell’aguzzino si abbattè sul suo viso. Il ceffone le esplose nel cervello con un bengala di fuochi.
Seduto a cavalcioni sulla pancia della donna, l’uomo colpiva il viso della contessa con violenza e determinazione. Ormai i ceffoni stavano stordendo la povera donna. Sulle labbra tumefatte, Milène de Lorsange sentiva il sapore dolciastro del suo stesso sangue. E l’uomo che le pesava sullo stomaco le toglieva il fiato.
Da parte sua il carceriere godeva immensamente del senso di potenza che gli dava quella posizione. Sentiva la donna sotto di se sobbalzare ad ogni colpo, sentiva il suo respiro ansante sollevargli le natiche, sentiva i suoi seni morbidi schiacciati contro le sue cosce e il suo membro prendere consistenza, ingrossarsi, diventare duro. Con mano febbrile si slacciò la patta dei sanculotte e tirò fuori un cazzo grosso, nodoso e venato di azzurro, duro da scoppiare, al massimo della sua erezione e pensò che non aveva che da scegliere il modo in cui avrebbe sfogato sulla donna la propria libidine.
Avvicinò il bacino al viso arrossato della contessa e porse a quelle labbra gonfie il suo cazzo da succhiare.
La nobildonna, nauseata e schifata dal gesto volgare, girò di scatto la testa di lato. Ma l’uomo non poteva permetterglielo!
L’afferrò per i capelli e la tirò contro il suo membro eretto.
– Cosa cazzo credi di fare, stupida troia! Ti ordino di succhiarmelo ed è esattamente quello che farai! –
La donna sentiva contro il viso quel bastone di carne che puzzava terribilmente di cazzo non lavato da giorni e non poteva fare a meno di respirarne l’odore acre, misto di sesso, urina e sudore. Non rispose e l’uomo, inviperito, iniziò nuovamente a schiaffeggiarla violentemente: rivoli di sangue iniziarono a scorrere copiosamente sul volto della donna, poi lo sbirro unì le mani sulla sua gola e iniziò a stringere.
Ma cosa voleva farle quel pazzo? Voleva strangolarla?!
– Apri la bocca e succhia puttana nobile, apri la bocca o ti strozzo! – ripeteva lui.
Disperatamente la donna tentava di succhiare un filo d’aria attraverso la gola serrata. Le orecchie ronzavano e tutto si faceva più confuso e più lontano.
– S… ss… ssì… – rantolò alla fine lei.
Il carceriere lasciò la presa e la donna tossendo e ansimando aspirò dolorosamente l’aria che tornava a defluire nei suoi polmoni. Le sue labbra si socchiusero e ricevette tra i denti quel pene teso e vibrante.
Chiuse gli occhi nauseata, cercando di respirare il meno possibile per non sentire la puzza che emanava, mentre l’uomo, tenendola saldamente per la testa, cominciava a scoparla in bocca come l’ultima delle prostitute. Intanto l’altro carceriere, che fino a quel momento se ne era stato a guardare, si era eccitato a vedere la scena e decise di partecipare al festino. Si inginocchiò accanto alla coppia e tentò di sfilare i brandelli dei mutandoni alla donna che stava sotto il suo compare.
La contessa sentendo le mani dell’uomo che tentavano di denudarla, cominciò a mugolare impazzita, seppur ostruita dal cazzo che la scopava fino in gola, e ad agitare le gambe nel disperato tentativo di sfuggire a quella vergogna.
L’aguzzino afferrò il bordo superiore della stoffa e diede uno strattone, cominciando ad abbassare l’indumento sui fianchi della donna scalciante. I mugolii divennero disperati mentre i mutandoni tirati a forza scendevano a scoprire un pancino soffice e levigato e poi una peluria fitta che ricopriva il pube, e benche la donna si agitasse e cercasse di inarcarsi disperata, ben presto scesero fino alle ginocchia e poi alle caviglie, lasciandola completamente nuda ad eccezione delle scarpe.
L’uomo finì di toglierle del tutto l’indumento, poi con mossa brutale le allargò oscenamente le gambe. La vagina si mostrò in tutta la sua nudità e la donna lanciò un grido di umiliante sconfitta mentre una mano avida si posava sul suo pube.
L’uomo la toccò lascivamente fra le cosce allargate poi con crudeltà le infilò due dita dentro. Diede una stoccata feroce e le dita si infilarono a forza nella vagina asciutta. La donna s’inarcò trafitta e scalciò, gridando il suo dolore, malgrado il cazzo che continuava a pomparla con foga nella bocca, entrandole fino in gola e provocandole continui conati e colpi di tosse.
L’uomo la scanalò nella figa con forza per qualche minuto, dandole stoccate violentissime con le dita, incurante dei mugolii e delle grida che la poveretta lanciava quando poteva. Poi, stanco di quel giochino, si chinò e le sollevò le gambe, avvicinò il viso al pube nero e folto della donna, divaricate le grandi labbra, ed uscita la lingua iniziò prima e per un po’ a leccarle le piccole labbra, quindi passò a succhiarle irresistibilmente il clitoride che diventò turgido e grosso.
Un sapore acidulo, ma irresistibile gli impregnò la bocca; continuò a leccarle la fica ancora per un po’, quindi scese in basso ed iniziò a leccarle avidamente il buchetto strettissimo e serrato del culo. Lo leccò e lo succhiò avidamente; quindi appoggiò sadicamente il dito indice e senza preavviso glielo cacciò nell’ano inviolato. La donna emise un urlo acutissimo, la contessa infatti non aveva mai permesso a nessuno, nemmeno al suo defunto marito di toccarle quella parte per lei così intima e vergognosa.
Il carceriere iniziò a muoverlo avanti e dietro, continuando poi l’operazione con il dito medio, poi col medio e l’indice insieme. La donna continuava a gridare come una disperata, sentendosi rovistare selvaggiamente in quel posto dove nessuno aveva mai nemmeno posato lo sguardo. Quando l’uomo si fu stancato di quella manovra con un colpo secco estrasse le dita, si mise davanti alle sue cosce, e si aprì i pantaloni tirando fuori un membro ancora più grosso e lungo di quello del suo compare, posizionandolo sull’ostio vaginale; La contessa a qual punto, mugolò qualcosa e l’uomo che le stava a cavalcioni si fermò per un attimo, tirando fuori il pene dalla sua bocca.
– No, non lo fate, vi prego, vi supplicoo! – implorò la poveretta.
Ma fu tutto inutile: i suoi carcerieri erano intenzionati a stuprarla fino in fondo e sicuramente l’ultima delle loro qualità, se pure ne avevano, era la pietà. L’uomo aveva il glande gonfissimo posizionato sull’apertura vaginale della donna, tra le urla della contessa, spinse in avanti con decisione ed il suo enorme e duro glande penetrò nella sua vagina. La donna inarcò la schiena per quanto potè, gravata dal peso dell’uomo a cavalcioni del suo torace, ed emise un urlo di disperazione; l’uomo spinse ancora con forza bruta e l’enorme mazza di carne entrò completamente dentro il ventre della prigioniera, allargandole di parecchio il diametro della vagina, per andare infine a sbattere contro il suo utero. La contessa emise un altro lungo, disperato ed ansimante urlo; a quel punto l’uomo prese le sue gambe e gliele alzò, ponendole sopra le sue spalle ed iniziò a montarla come una vacca. Continuò a sbatterla come un forsennato per un tempo interminabile e più passavano i minuti e più la sofferenza della contessa cresceva. Il carceriere seduto sul suo stomaco aveva ripreso a scoparla nella bocca e lei si dibatteva come un animale in trappola, tentando disperatamente di sottrarsi a quella doppia violenza.
L’uomo che stava stuprandola iniziò a sbatterla con ancora più foga, sentiva il calore umido della sua vagina che gli circondava il membro e la sua peluria che sbatteva contro la sua. Dopo circa dieci minuti di quella brutale e rozza violenza raggiunse l’orgasmo e le allagò la vagina di caldo e denso sperma. Anche il suo compare arrivò quasi contemporaneamente all’orgasmo e iniziò a venire nella bocca di Milène che fu costretta, nauseata al limite del vomito, ad ingoiare una quantità indescrivibile di sperma caldo e filante. Lo sperma le scese impietoso fino ai polmoni, con uno scatto disperato la donna riuscì a sottrarsi tossendo e sputando, lentamente riprese a respirare normalmente, aveva il volto impiastricciato ed alcuni colpi di tosse le avevano fatto uscire la sborra anche dal naso.
La donna sembrava stremata e al limite delle sue forze, ma i suoi stupratori non erano ancora sazi, la fecero sollevare e posizionare alla pecorina sopra il carceriere che l’aveva usata nella bocca.
Il maschio era steso a terra e con violenza le infilò il cazzo ancora durissimo, nonostante l’orgasmo appena avuto, nella fica ormai fradicia di sperma, ridotta ad un porto di mare, dislabbrata, e rossissima. L’altro uomo si portò davanti a lei porgendole oscenamente il cazzo congestionato. La donna, ormai rassegnata alla violenza, spalancò la bocca e lui glielo affondò in gola fino alle tonsille con un colpo deciso, quindi la prese per i capelli ed iniziò a muoversi avanti ed indietro.
Intanto le braccia dell’uomo sotto di lei iniziarono a cingerle il petto e a stringerla con decisione a sé: il suo torace si abbassò e i suoi seni aderirono al petto del maschio, mentre il suo culo pallido veniva a trovarsi innalzato ed al centro dell’attenzione.
Il primo carceriere si sfilò dalla sua bocca e giratole intorno si portò alle sue spalle, piegò le gambe mentre contemporaneamente le afferrava con forza i glutei, divaricandoglieli. Riprese a leccarle l’orifizio anale e dopo un po’ le infilò il dito medio dentro l’ano scanalandola un bel po’ in quel modo volgare e insultante.
La contessa, che naturalmente non aveva mai avuto rapporti anali e ora capiva chiaramente che stava per essere sodomizzata, urlava a perdifiato ed implorava pietà, tentando nel contempo di districarsi dalla morsa ferrea dell’altro carceriere che la teneva abbracciata contro il suo torace, ma l’uomo era troppo forte perchè lei avesse qualche speranza di riuscirci.
L’uomo alle sue spalle appoggiò la cappella allo sfintere. Colta dal terrore, la donna tentò di divincolarsi, ma il maschio che stava sotto di lei la trattenne, mentre lei iniziava ad urlare; Quello che intendeva incularla l’afferrò violentemente per i fianchi e spinse con ferocia cercando di forzarle lo sfintere. La donna gridava e stringeva il muscolo con disperazione, ma l’uomo non le dava tregua e spingendo con tutte le sue forze, riuscii a farle entrare dentro la cappella.
Milène de Lorsange emise un urlo indescrivibile; l’uomo spinse ancora impietosamente e lentamente tutto l’uccello le entrò dentro lo sfintere dilatato oscenamente. La donna sentì un cazzo grosso e duro come un pezzo di legno, sfondarle impietosamente il culo, penetrando rapidamente dentro il retto; i tessuti, che mai, fino a quel giorno, erano stati violati, dovettero cedere all’improvviso, lacerandosi ed un getto di sangue iniziò a colarle giù per le cosce. Il dolore, dovuto a quel violento atto di penetrazione le provocò un violento conato di vomito, si sentì svenire e un secondo incredibile urlo le sfuggì dalla gola. La povera contessa si sentì spappolare le budella da quell’enorme mazza che la riempiva, la sentiva affondare sempre più profondamente nell’intestino; poi l’uomo, senza darle un minimo di tregua, iniziò a muoversi ritmicamente in lei, sbattendola sonoramente avanti e indietro.
I due compari ora si muovevano contemporaneamente. Il tempo scorreva veloce e loro continuavano a scoparla e incularla con vigore. Il maschio sotto di lei allentò la presa ed il compare le fece alzare il busto iniziando a palparle le tette ormai tumefatte e sfregiate per sempre dalle frustate a cui erano state sottoposte. Il dolore allo sfintere era sempre fortissimo e non accennava a placarsi e la donna gridava e si lamentava senza sosta; ad un tratto i due uomini raggiunsero quasi contemporaneamente l’orgasmo, eiaculando copiosamente dentro i due orifizi della donna. Nonostante ciò non si fermarono, anzi continuarono a chiavarla e incularla, senza mai toglierle i cazzi dalla vagina e dal retto. Incredibile fu il numero di volte che eiacularono dentro di lei: orgasmo dopo orgasmo, i fiotti caldi di sperma la stavano riempiendo.
Alla fine la poveretta era più morta che viva e il peggio era ancora da venire. Non sapeva infatti, la donna, che il giudice Dorval aveva aggiunto una postilla alla sua condanna dove si leggeva che la condannata doveva essere sottoposta alla tortura straordinaria prima di essere messa a morte.
I due la trascinarono fuori della cella quasi incosciente.
Non capì che cosa accadde nei minuti che seguirono. Il deliquio si impadronì di tutti i suoi sensi. Fu solo il suo udito a captare, a tratti, le voci dei suoi carcerieri. Una ventata d’aria fresca la sottrasse per un momento alle nebbie dell’incoscienza. Ma non riusciva ad aprire gli occhi. Era tutta un dolore. Ogni nervo del suo corpo urlava, bruciava, pungeva.
La rivestirono alla meglio e ancora tutta sporca e dolorante fu fatta salire su una carretta trainata da un asino. Le legarono le mani dietro la schiena e il triste corteo composto dalla carretta e dalle guardie di scorta lasciò la prigione per avviarsi verso la place de Grève fra due ali di folla urlante.
Il tragitto fino al luogo dove era eretto il patibolo fu un vero delirio di folla, di lazzi, di grida oscene, di schiamazzi volgari. La contessa de Lorsange pareva non udire le grida delle popolane che le urlavano le peggiori ingiurie e offese.
il suo sguardo era fisso in avanti e pareva guardare qualcosa lontano che solo lei poteva scorgere. Una donna tentò di arrampicarsi sul carro per strapparle forse i capelli o un lembo della veste da esibire come trofeo, ma fu ributtata fra la folla dalle guardie che scortavano il carro.
Quando il triste corteo giunse sul luogo dell’esecuzione, la piazza era gremitissima di folla urlante, le donne parevano le più accanite e urlavano oscenità incredibili all’indirizzo della nobildonna decaduta.
Fu fatta scendere dal carro e accompagnata fino al patibolo. Durante il tragitto mani adunche l’afferrarono, le strapparono gli abiti a brandelli, le graffiarono la carne, le strapparono ciocche di capelli. Le donne del popolo parevano impazzite e folli di rabbia. I soldati della guardia avevano il loro bel da fare a cercare di allontanarle, ce n’era sempre una che riusciva ad avventarsi sulla malcapitata.
Quando iniziò a salire i gradini che portavano al palco Milène de Lorsange era ormai una lontana immagine della bella donna che era stata.
Mastro Sanson, il boia di Parigi, l’aspettava a braccia conserte.
La povera donna non si rese neanche conto di quanto avveniva intorno a le. Il suo sguardo era puntato verso l’imponente e tetra ghigliottina che svettava nel centro della piattaforma di legno elevata sulla piazza.
Fu fatta inginocchiare e poggiare il collo nell’incavo che stava alla base dell’impalcatura. Un asse di legno sagomato le venne abbassato sopra, imprigionandole il collo. Istintivamente cercò di trarsi indietro, la paura di morire, l’istinto di sopravvivenza prendevano il sopravvento sulla sua apatia.
Roteava gli occhi e guardava il paniere sotto la sua testa, la folla urlante, le guardie, il boia e i suoi aiutanti. Aveva paura, la vita la stava abbandonando e lei aveva paura. Non voleva morire.
L’aiutante del boia, che poi era anche suo figlio, si avvicinò all’uomo grande e grosso e parve dirgli qualcosa, forse una supplica o una richiesta. Il boia parve esitare, da sotto il cappuccio nero i suoi occhi roteavano perplessi dalla faccia di suo figlio, al corpo della donna inginocchiata sotto la lama, alla piazza gremita di folla urlante e in delirio. Poi si decise e fece un secco cenno di assenso con la testa.
Immediadamente il figlio del boia si precipitò come assatanato sulla vittima predestinata per l’esecuzione. Con un movimento rapido le sollevò la veste sulle reni mettendo allo scoperto, davanti a tutta la piazza, il pallido culo della contessa. La donna, sorpresa, cominciò a gemere forte e a roteare gli occhi impotente, schiumando per la vergogna di sentirsi così oscenamente esposta agli occhi di tutti, mentre intanto il giovane alle sue spalle si calava le braghe, mettendo allo scoperto un membro di considerevoli proporzioni.
La folla parve come impazzire dall’eccitazione, avendo intuito le intenzioni del giovane, e le urla si fecero più assordanti, i lazzi più feroci, gli schiamazzi più violenti.
“Fottila!!”, “Spaccale il cuuulooo!!!”, “Dagli a questa stronza nobile, inculatela a sanguee!!!!!” era il delirio, il parossismo; la gente si accalcava, strattonava, spintonava per assistere alla scena, per farsi più sotto al palco e le guardie dovettero cominciare a menar botte coi calci dei fucili per tenere indietro la folla schiumante di libidine e curiosità.
Sul palco, intanto, l’aiutante del boia si era inginocchiato, sistemandosi dietro di lei e, dopo averla saldamente afferrata per le anche, appoggiò la sua enorme cappella contro l’ano martoriato e cominciò a spingere con furia sadica.
La marchesa digrigava i denti e soffiava come un mantice sentendosi allargare l’ano dolorosamente, tentò di scrollarselo di dosso, ma aveva le mani legate dietro la schiena e il collo imprigionato nella gogna della ghigliottina, diede ancora uno scrollone violento, tentò ancora di sfuggire alla violenta intrusione, ma un colpo di reni spasmodico, uno scatto della sua schiena e un urlo atroce sottolineò che l’uomo alle sue spalle era riuscito a entrarle nel culo.
A furia di spinte il giovane riuscì a introdurre tutto il suo enorme cazzo in quel culo restio, infischiandosene delle grida laceranti che emetteva la donna, dei suoi movimenti convulsi, delle gambe che sbattevano nervosamente sul duro legno del palco, dei maldestri calci che la poveretta cercava di affibbiargli per tentare di farlo desistere.
Il dolore era incredibile, l’afferrava in ogni sua fibra, la scuoteva e la faceva urlare come una pazza e piangere calde lacrime che le sgocciolavano sul viso disfatto. Il cazzo gigantesco del suo violentatore le aveva riaperto le ferite dentro, la scavava come un paletto di legno, la devastava nell’intestino che rischiava di prolassare da un momento all’altro. E il sangue aveva ripreso a scorrere copioso e vermiglio sulle sue cosce.
A quel punto, mentre il figlio continuava a inculare la donna urlante, mastro Sanson prese un piccolo ceppo di forma rotonda e lo appoggiò a lato del corpo della marchesa. Provvide a scioglierle poi i legami che le bloccavano i polsi dietro la schiena e, mentre l’altro aiutante provvedeva a mantenere fermo il braccio steso in fuori con la mano poggiata sul ceppo, lui prese una grossa e affilata scure che stava appoggiata in un angolo.
Si avvicinò con fare professionale alla scena che si svolgeva sotto ai suoi e agli occhi di tutti e sollevò la scure mostrandola alla folla. La contessa dovette intuire che stava per succederle qualcosa perchè sembrava strillare più forte e strattonava con tutte le sue forze sul braccio che l’aiutante continuava a tenerle steso in fuori e intanto alle sue spalle il figlio del boia la inculava con colpi violenti e profondi, lacerandole l’ano e devastandole il retto.
Poi la scure calò con un rumore fischiante e tranciò con un colpo secco il polso della poveretta. Il sangue sgorgò a fiotti dalle arterie tranciate di netto, mentre la donna agitava il moncherino e urlava come impazzita.
Il boia non si scompose, ma afferrò il ceppo e si portò dal lato opposto, mentre il suo secondo aiutante, dopo aver mostrato a tutti la mano mozzata, ridendo e ghignando la lanciò in mezzo alla folla. Sembrò scoppiare un tumulto mentre la gente impazzita si lanciava e si accapigliava per accaparrarsi il macabro trofeo.
La scena si ripetè con l’altra mano, l’altro braccio fu steso in fuori e bloccato sul ceppo, la donna ora sapeva cosa l’aspettava e lanciava alti lamenti strazianti, ma la scure inflessibile e impietosa calò nuovamente e anche la sua mano sinistra divenne ben presto un nuovo trofeo da acciuffare per esibirlo tionfante a tutti.
Il figlio del boia, intanto, continuava instancabile a fotterla nel culo ormai ridotto a una caverna piena di sangue e di tessuti strappati, la sodomizzava con colpi violenti, rudi, implacabili, straziandola e infliggendole nuovi tormenti ad ogni colpo che le dava. Quando alla fine sentì che stava per arrivare all’orgasmo fece un cenno d’intesa a suo padre. Mastro Sanson non aspettava altro e in mezzo al silenzio che era sceso a un tratto nella piazza, con la folla che guardava ad occhi sbarrati quel momento allucinante, si avvicinò alla ghigliottina e afferrò il meccanismo che bloccava la lama per azionarlo.
Poi tutto accadde.
Mastro Sanson tirò il chiavistello di sblocco e la grossa e pesante lama affilata, dal taglio obliquo, calò giù con rumore fischiante.
Nell’attimo che la lama calava sul suo collo la donna avvertì la sborra sgorgare fuori, schizzarle negli intestini, allagarle le budella, riempirle il retto.
Si udì un suono sordo, come un raschio misto a rumore di lacerazione, un tonfo cupo, della lama che arrivava a fine corsa e la testa di Milène de Lorsange rotolò nel paniere. Gli occhi rotearono ancora per lunghissimi istanti, angosciati, imploranti, terrorizzati, increduli… poi divennero vitrei, mentre il sangue sgorgava a fiotti dalle arterie tranciate del collo.
Il suo buco del culo si serrò implacabilmente attorno al cazzo che la invadeva, imprigionandolo, facendolo suo, stringendolo in modo tale che pareva una morsa feroce, simile a quella di una cagna che trattiene il membro del maschio sino ad averlo svuotato anche dell’ultima goccia prima di rilassarsi e di consentirgli di sfilarsi da lei. Il figlio del boia grugniva, mugolava, fremeva beato nell’esaltazione del piacere che quel buco gli dava negli spasimi della morte.
Poi il corpo si rilassò e giacque immobile.
L’esecuzione era stata eseguita.