Il cuore e lo scrigno
Capitolo 1
Nel nome di Set
Le lucerne angolari, infisse su artistici supporti di rame a forma di falco ardevano ormai fioche nella stanza calda, appena rinfrescata dalla brezza che, precedendo di poco l’alba, soffiava dal Nilo sui tetti e le terrazze più elevate di Tebe; che iniziava ora a risvegliarsi dal sonno notturno. All’interno della grande camera, situata al piano più altro del palazzo reale, ad angolo, con ampie aperture verso il grande fiume, nessuno aveva però dormito molto.
Sull’immenso letto centrale a baldacchino, circondato da leggerissimo e trasparente tessuto a rete bianco che impediva il passaggio ai numerosi insetti volanti, una bellissima donna dalla carnagione candida e lunghi neri capelli era circondata da tre uomini. I quattro erano ora semiaddormentati, distesi scompostamente sul letto sfatto e segnato da una notte di piaceri viziosi. Grandi macchie di vino versato durante l’orgia sfrenata, resti di datteri e fichi, di focacce al miele e rossi semi di melograno punteggiavano le lenzuola di lino e i nudi corpi, stanchi, ma non ancora totalmente sazi.
La donna, destata dalla sete, si allungò verso la grande brocca metallica; bevve un lungo sorso di forte vino scuro che in parte scivolò ai lati delle sue rosse, piene labbra, scorrendo lungo il collo fino a bagnare i grandi scuri capezzoli che sormontavano il piccolo seno; con la bocca ancora colma di nettare, si spinse poi lungo il nero, lucido corpo del nubiano che era disteso al suo fianco e lasciò sfuggire ancora alcune gocce di rosso e fresco vino che cadde a pioggia sul lungo, seppur rilassato membro dell’uomo, iniziando a risvegliarlo. Poi lo avvolse interamente con le labbra, bagnandolo di vino e saliva per sentirlo lentamente indurire nella sua bocca.
Si trattava di uno dei suoi molti schiavi-combattenti, soggiogati dalle sue segrete arti oscure e ora votati a lei fino alla morte; schiavi le cui fila erano sempre rimpolpate da nuove leve, perché avevano la tendenza a svanire, divorati dalle sue pratiche, spesso in gran numero e misteriosamente. Questi era stato un grande guerriero, uno dei condottieri dell’armata ora distrutta del regno di Punt; una campagna militare risalente al suo nono anno di regno. Ormai le apparteneva da tredici anni, ed era sempre stato uno dei suoi favoriti, e non solo per le dimensioni davvero spropositate del suo pene, che adesso si stava ingrandendo così prepotentemente da spingere la sua bocca all’esterno, mentre faticava quasi a contenerne la sola punta.
I loro movimenti e i mugolii del compagno risvegliarono anche gli altri due uomini. Uno era molto giovane, bianco, asciutto come un giunco e persino lievemente effeminato nell’aspetto, con lunghi capelli chiari, così rari in quelle terre. L’ultimo era invece muscoloso e dal corpo olivastro, segnato da molteplici cicatrici di battaglie e duelli. Entrambi, ora ridestati, si strinsero alla donna con l’eccitazione che tornava rapida a sorprenderli per lo spettacolo dell’immenso membro nero che scorreva su e giù, stretto da entrambe le mani sottili dalle lunghe unghie, nella rossa bocca spalancata della loro sovrana.
La lussuriosa donna era infatti Maatkara Hatshepsut, quinto sovrano della XVIII dinastia e primo Faraone donna della millenaria storia del regno d’Egitto; la cui lussuria si diceva fosse pari alla sua intelligenza e crudeltà, e naturalmente alla sua oscura magia. Il giovane efebico avvicinò le sue labbra a quelle della sua regina, prima leccando le ultime gocce del vino, poi unendo la sua lingua a quella della donna in un bacio profondo, infine si unì a lei nel leccare e succhiare quel gigantesco palo di nera carne che svettava durissimo tra le loro bocche.
L’altra guardia del corpo invece si chinò alle sue spalle, accostando la bocca tra le gambe inginocchiate di Hatshepsut, leccandola e baciandola ovunque e spingendo poi le dita dentro di lei, profondamente; poi si avvicinò appoggiando la punta rossa e congestionata del suo duro e lungo fallo sul buco più stretto, che alle prime spinte si dilatò a sufficienza per accoglierlo e risucchiarlo completamente dentro. Iniziò a spingere, dilatandola con la sua potente erezione, e ogni colpo le sbatteva sempre più forte la bocca sul nero pene che le impediva quasi di respirare.
Tutti i movimenti degli occupanti del letto si fecero via via più frenetici, finché, vinti dal desiderio, i due godettero quasi insieme. Uno le invase i visceri, l’altro eruttò lunghi e intensi schizzi bianchi che riempirono le bocche della Regina e del biondo, imbrattando i loro visi e capelli.
In quel momento la grande porta in legno dorato e avorio delle sue stanze private vibrò in conseguenza di un forte colpo, incuneandosi verso l’interno e forzando il chiavistello d’argento che la chiudeva. Uno dei tre uomini, quello che era appena fuoriuscito dal sedere della sua padrona, abbassò una gamba sul pavimento di marmo bianco e scostò la tenda di rete, mentre un secondo schianto spezzò cardini e chiavistello facendo cadere con un sonoro boato le due ante della porta in terra, dentro la stanza.
Dal varco aperto con la forza entrarono numerosi guerrieri armati, molti con scudo e lancia e dietro di loro altri con archi tesi. In mezzo a loro entrarono altri due uomini. Uno era anziano, il viso scavato e spiritato; una lunga pelle di leopardo gli scendeva dalle spalle ricoprendolo nonostante il caldo, simbolo assoluto del suo rango di Primo Profeta di Amon-Ra; il suo nome, Hapuseneb era temuto in tutta Tebe. L’altro era giovane, seppur dallo sguardo feroce del leone; al fianco portava la spada ricurva d’argento che era appartenuta a suo padre, Thutmose secondo, e defunto marito dell’attuale Regina e primo Faraone donna.
Thutmose, che oltre alla spada portava anche lo stesso nome del padre, entrò nella stanza avvicinandosi al letto. Su un tavolo lì accanto riposava appoggiato il Nemes, il copricapo reale. Il Nemes simboleggiava la natura divina del faraone, figlio del dio sole Ra, venuto in terra a proteggere il suo popolo e la sua terra. L’uomo lo raccolse con la mano, gesto di per se sacrilego, solo il Faraone poteva toccarlo. La guardia che aveva scostato la zanzariera si alzò di scatto, muovendosi, ancora nudo, verso di lui; non riuscì a fare nemmeno un passo. Una lancia e quattro frecce acuminate lo colpirono all’unisono al collo e al petto. Cadde riverso, morto prima di toccare il pavimento che iniziò a bagnarsi del suo sangue.
Thutmose non lo degnò di uno sguardo, tutta la sua attenzione era riposta al Nemes; con un dito seguì le strisce alternate blu e oro, simbolo dell’unione dei due vecchi Regni dell’alto e basso Egitto, quindi accarezzò l’ureo, l’immagine del serpente, posta a protezione del sovrano, con un sorriso e la tacita benedizione di Hapuseneb, che lo guardò abbassando il capo in cenno di assenso.
Intanto gli altri due schiavi guerrieri si erano posti davanti alla Regina, per farle scudo con i loro corpi, seppur disarmati e nudi. Morirono insieme pochi battiti di cuore dopo, trafitti da numerose frecce e lance; ancora sporchi di sperma e vino, ricoperti ora dal sangue che sgorgava a fiotti dalle numerose trafitture, si accasciarono sul letto, arrossando il lino che era stato muto testimone dei loro molteplici piaceri. La Regina si alzò e discese dal letto, nuda e bellissima, il viso che non lasciava trasparire alcuna emozione, salvo la rabbia crudele negli occhi neri che fece tremare e distogliere lo sguardo a più di un soldato. Venne avanti a passi lenti.
Le lance e gli archi si abbassarono di fronte a lei, mentre, puntando l’indice verso Hapuseneb, Hatshepsut iniziò a mormorare una maledizione. Gli occhi del sacerdote di Amon-Ra si spalancarono mentre inorridito si portò le mani alla gola, graffiandosela con le unghie lunghe, la bocca spalancata in una muta ricerca d’aria, crollando infine in ginocchio, paonazzo. Molti guerrieri accanto a lui gettarono le armi e fuggirono, gli altri rimasero immobili, terrorizzati. Mentre la vita fuggiva via dal corpo del Primo Profeta, Thutmose fu il solo a non lasciarsi avvolgere dal terrore diffuso nella stanza, in un solo rapido gesto estrasse la spada ricurva e la spinse a fondo nella schiena nuda della matrigna.
Maatkara Hatshepsut, quinto sovrano della XVIII dinastia, morì incredula, cadendo ai piedi del figliastro, ora Faraone Thutmose terzo, che si pose sul capo il Nemes e uscì dalla stanza, degnando appena di uno sguardo il corpo rattrappito di Hapuseneb; in fondo c’erano diversi giovani sacerdoti tra cui scegliere un riconoscente e fedele nuovo Primo Profeta, ora doveva solo far eliminare in fretta ogni testimone, compresi i soldati che erano fuggiti, e far organizzare un sontuoso rito funebre per la prematura dipartita della Regina.
Il sole tramontò sul Nilo, incurante degli umani avvenimenti, risorse e tramontò ancora una volta. Una soglia si aprì; entrarono nella camera funeraria un uomo vigoroso, due giovani assistenti e un’ancella che reggeva un vassoio contenente i vasi canopi. Il corpo nudo di Hatshepsut era disteso sul tavolo d’imbalsamazione, ancora bellissimo nonostante la fredda rigidità.
Il cadavere venne voltato a pancia sotto; attraverso il foro praticato dalla feroce spada del nuovo Faraone il sacerdote estrasse con immensa cura il cuore della defunta, posandolo poi in una grande ciotola, accanto a un piccolo scrigno d’argento. L’ancella fu stupita di quell’operazione, così inusuale nella consueta opera di preparazione alla mummificazione; in verità il cuore era uno dei pochi organi che veniva lasciato nel corpo e non finiva nei vasi canopi.
Nectar, il gran sacerdote di Set, ricucì con estrema attenzione e cura i lembi di pelle tagliati dalla lama di Thutmosi, quindi, con l’aiuto dei due assistenti, girò nuovamente il corpo della sua Regina. Rabbia e follia bruciavano nei suoi occhi; quella donna meravigliosa era stata la sua allieva migliore nelle arti oscure di Set e avrebbe persino potuto superare il suo maestro, tanto era il talento arcano che la pervadeva. Ora era morta, assassinata dai suoi sudditi infedeli, ma lui avrebbe rimediato; tempo sessantasei giorni Maatkara Hatshepsut sarebbe tornata dal regno dei morti più forte e potente di prima, e con il suo aiuto avrebbe riconquistato il trono che era suo per non lasciarlo più. Regina e Faraone in eterno.
A un suo muto cenno d’intesa i due giovani afferrarono l’ancella per le braccia spingendola verso il tavolo su cui giaceva il corpo della defunta Regina, il viso ora stupito e terrorizzato della giovane rivolto verso quello freddo e silente, ma ancora bellissimo nel suo pallore mortale. Nectar aprì gli occhi morti sollevando a forza le palpebre e iniziò a salmodiare in una lingua roca, infernale. Il suo tono si alzava e abbassava come il moto di onde nere e malefiche che scuotevano una scogliera, giungendo fino alle porte di Anubi, per strappare il Ka di Hatshepsut dalla sala delle due verità e riportarlo indietro, ricongiungendolo al suo corpo.
Al culmine della negromanzia afferrò i capelli dell’ancella abbassandone il volto ancora di più, quindi con un solo rapido gesto le fendette la gola con il coltello sacrificale. Il sangue rosso e caldo spruzzo il volto della Regina, quindi il Sacerdote prese la ciotola con il cuore appena estratto e ponendola sotto la gola squarciata dell’ancella la riempì; concluse quindi il rito malefico ponendo le mani dentro la ciotola e stringendo il cuore. Un lampo di fuoco azzurro, freddo e crudele consumò ogni traccia di sangue e il cuore morto, stretto tra le sue dita batté ancora, un battito lentissimo, empio e terribile.
Vide una piccola luce di coscienza accendersi negli occhi scuri coperti di sangue, per cui provvide subito a richiuderli. Occorreva diverso tempo perché lo spirito tornato dall’oscurità riuscisse a riprendere il controllo del corpo defunto. Mise con estrema cura il cuore dentro lo scrigno d’argento, dopo averlo aperto con la segreta sequenza a lui solo nota, quindi provvide rapidamente ad aprire il corpo dell’ancella e riempire con i suoi organi i quattro vasi canopi. Daumutef,il vaso con la testa di sciacallo, con lo stomaco. Quebehsemut, il falco, con gli intestini. Ismet, dal volto umano con il fegato. Infine Hapy,con la testa di babbuino,con i polmoni.
Provvide poi a rivestire lentamente e accuratamente il corpo di Hatshepsut con le bende di lino profumate, mentre gli assistenti facevano sparire ogni traccia e i resti dell’ancella. Il corpo bendato fu quindi posizionato nel sarcofago pronto lì accanto e la maschera funebre d’oro e pietre preziose, riproducente il viso della Regina fu posta sul suo capo. Infine chiuse il sarcofago. Il rito funebre si sarebbe concluso a Luxor, nella valle dei Re, nel Djeser-Djeseru, La sublime sublimità, il magnifico tempio funerario che la defunta aveva fatto erigere per se. Sarebbe poi penetrato lui stesso in segreto nella tomba, trascorso il tempo necessario, per risvegliarla con nuovo sangue fresco come prescriveva il compimento del rituale.
Nectar lasciò infine soddisfatto la stanza. I suoi due assistenti morirono prima del sorgere del sole, lasciandolo unico depositario del grande segreto. Diciassette giorni dopo, quando anche il rito funebre era ormai stato ultimato, un cavallo imbizzarrì lungo la via principale di Tebe, il carro da guerra sbandò, mentre l’auriga cercava invano di mantenerne il controllo. Nectar, gran sacerdote di Set fu travolto e il suo collo si spezzò all’istante. Fu sepolto con tutti gli onori del caso anche lui a Luxor.
Maatkara Hatshepsut, quinto sovrano della XVIII dinastia, rimase nell’oscurità della sua tomba, chiusa nel ligneo sarcofago.
E attese.
Capitolo 2
Quaranta secoli di storia vi guardano.
Il caldo era davvero feroce a Embabeh quel pomeriggio; la sabbia, rovente sotto il sole di luglio, disturbava lo sguardo creando illusioni di calore verso l’orizzonte. Il tenente Pierre Francois Xavier Bouchard faticava a mantenere calmo il proprio cavallo, stretto com’era tra gli altri novantanove della sua compagnia d’Elite di Dragoni, al centro del quadrato del generale Desaix. La carica dei Mamelucchi si era appena infranta sotto i colpi dei moschetti dei fanti del quadrato e dei quattro cannoni in posizione centrale. Con gli assalitori finalmente in rotta il quadrato si aprì anteriormente, così come gli altri ai suoi fianchi, e finalmente la cavalleria leggera uscì al galoppo per sbaragliare definitivamente il nemico.
Pierre spronò il cavallo urlando ‘A la charge!’, con la sciabola sguaiata guidò la sua compagnia alla carica. Le tre immense piramidi si stagliavano di fronte a loro, riempiendo l’orizzonte come acuminati monti misteriosi. Abbatté con la sciabola cinque cavalieri mamelucchi in fuga, quindi sentì un urto sotto la spalla sinistra; sangue rosso fluì sulla giubba verde e il contraccolpo gli fece perdere il controllo delle briglie. Cadde così rudemente sulla sabbia, perdendo conoscenza.
Mi svegliai di soprassalto. Sudato e agitato portai la mano sul cuore. La ferita ormai non doleva più molto. Erano passate tre settimane dalla battaglia delle Piramidi, ma sognavo ancora spesso quel momento. Detergendomi la fronte, e bevendo una lunga sorsata d’acqua dalla brocca accanto alla branda ricordai ancora il volto del medico al mio primo risveglio, e le sue parole.
– Siete stato fortunato Tenente. Il proiettile è entrato e uscito senza fare molti danni. Un paio di centimetri più in basso e adieu! –
Già, ero stato proprio fortunato, così fortunato che come convalescenza mi avevano inviato come comandante della scorta di quei tre folli archeologi, ora non potevo far altro che bollire lì a Deir el-Bahari, vicino a Luxor, in mezzo a vecchie rovine, tra caldo soffocante e centinaia di scavatori egiziani che ci odiavano e probabilmente avrebbero voluto tagliarci la gola, mentre i miei compagni folleggiavano al Cairo da vincitori. Ormai ero sveglio, mi alzai e lavai alla meglio nella bacinella che si trovava accanto alla branda, nella mia tenda e, nonostante il caldo insopportabile, mi vestii. La verde giubba da Dragone era davvero soffocante, mi trovai ad invidiare i seminudi lavoratori indigeni che giravano per il campo. Indossai infine la cintura con sciabola e pistola, rinunciando però all’elmo con pennacchio, quello era decisamente troppo.
Appena uscito trovai ad attendermi il Maresciallo Degougny che, seppur grondante sudore, mi rivolse un saluto perfettamente marziale, sugli attenti e battendo forte i tacchi degli stivali. Era un veterano, splendido garante della perfetta disciplina de l’Armeé.
– Buongiorno signor Tenente! –
Tuonò con la sua voce baritonale.
– Tutti gli uomini abili e al loro posto. Nulla da segnalare durante la notte, anche se un paio di sentinelle dicono di aver visto ombre strane, ma ritengo sia solo la suggestione per i racconti di quegli studiosi e le loro maledette tombe. –
– Sono già al lavoro? –
Chiesi mentre finivo di allacciarmi la fibbia del cinturone.
– Sissignore. Già da prima dell’alba. Anzi sono letteralmente euforici, pare stiano per aprire una nuova camera funeraria, hanno chiesto di voi, se volete raggiungerli –
Mi aggiustai il colletto e mi diressi verso l’ingresso del grandioso tempio, riaperto da pochi giorni, dopo aver asportato un’incredibile quantità di sabbia che celava l’entrata alla vista da chissà quanti secoli. Si trattava di tre ordini verticali di colonne, con un’immensa scalinata che risaliva i primi due fino all’ingresso pricipale. Perlomeno nelle sue profondità avrei avuto meno caldo. Oltrepassai i resti di una curiosa gigantesca statua a forma di gufo e quindi le immense porte, circondate da altri resti di statue colossali, ancora in ombra per via della scoscesa e alta scarpata retrostante che delimitava la valle del Nilo. Non senza un certo timore reverenziale per gli antichi autori di tali ciclopiche meraviglie, penetrai all’interno.
Seppur l’aria fosse sempre secca e calda la temperatura nelle profondità del tempio era decisamente più mite. Decine di scavatori egiziani stavano ripulendo le pareti e portando fuori macerie e sabbia che avevano ostruito le cappelle di Hanubi e Hator, almeno così mi aveva spiegato il professor Fourier, il decano della Commission des Sciences et des Arts, e a capo della spedizione scientifica. Procedetti verso l’interno, seguendo il percorso delle basse lampade a olio che rischiaravano i recessi più oscuri della costruzione, finché, avvicinandomi al fondo del corridoio, iniziai a udire una accesa lite in arabo e francese. Nell’atrio spoglio in cui sbucava il lungo, oscuro corridoio il professor Fourier, insieme ai due suoi assistenti e colleghi stava discutendo animatamente, agitando le braccia, con il gruppo di scavatori egizi, sotto lo sguardo palesemente divertito del soldato di guardia nella stanza che al mio ingresso tornò serio all’istante, scostandosi dal muro su cui era appoggiato e scattando sugli attenti.
Il suo movimento interruppe la lite, e tutti si voltarono verso di me. Avanzai fino a interpormi tra i litiganti.
– Che sta succedendo Fourier? Perchè questo caos? –
Dissi non mascherando uno sguardo rabbioso nei confronti degli operai egizi, che indietreggiarono abbassando lo sguardo, ma continuando a parlottare fitto tra loro.
– Tenente Bouchard, eccovi finalmente! –
Mi accolse il Professore con un sorriso di sollievo, come se potessi risolvere all’istante il suo misterioso problema.
– Siamo di fronte alla più incredibile delle scoperte e questi… questi… pazzi superstiziosi si rifiutano di continuare il lavoro! –
Il capo dei lavoranti, in un francese molto approssimativo cercò di fornirmi la sua versione.
– Effendi pascià –
Mi disse chinandosi di fronte a me e toccando con la fronte il dorso della mia mano.
– Grande maledizione! Grande maledizione per i profanatori della tomba. Sventura e morte. Fermateli effendi prima che sia tardi. –
L’uomo sembrava realmente turbato, così come tutti gli altri suoi compagni. Mi rivolsi quindi al professore.
– Di che sta parlando? Qual’è il problema? –
Fourier rispose battendo la mano sul muro, visibilmente esaltato.
– Qui dietro Pierre. Qui c’è il Sancta Sanctorum! La tomba inviolata di un Faraone. Immagini le ricchezze, i reperti. Questi cani tornerebbero di notte per depredarla, come hanno fatto per innumerevoli anni nelle tombe qui intorno. Adesso! Dobbiamo aprirla ora, e senza indugio. –
Provai a mediare, a convincere gli scavatori ma non ci fu nulla da fare, nemmeno con le minacce desistettero dal loro diniego. Alla fine rassegnato alzai le braccia verso i tre studiosi, come per far capire che non sapevo che altro fare. Fourier sembrava ormai fuori di senno. Inveiva contro di loro e li minacciava di morte. Avevano ricominciato a urlare e vidi nello sguardo di più di uno di loro odio e rancore, così decisi di troncare ogni altra discussione; raccolsi uno dei picconi e con un gesto secco, forte colpii la parete, nel punto in cui aveva battuto la mano prima il Professore.
Tutti smisero di gridare e nella tomba calò finalmente il silenzio, rotto solo dai ritmici colpi che infliggevo alla parete. Lentamente ma progressivamente il muro di pietra e mattoni si sgretolò sotto gli urti del piccone, finché crollo miseramente un’intera sezione del muro, aprendo un ampio varco verso l’oscurità. Aria secca, fredda e con un vago odore che non riuscii a classificare mi colpì attraverso il foro che avevo appena spalancato. Lasciai che la polvere conseguente al crollo si depositasse al suolo, quindi introdussi la testa.
Oltre l’apertura era totalmente buio, solo un filo di luce trapelava dalle mie spalle, delineando appena qualcosa di grande che troneggiava al centro della stanza. Retrocessi per raccogliere una delle lucerne; a quel punto ero davvero curioso di scoprire cosa si nascondesse da più di tremila anni oltre quel muro. Gli operai erano terrei in viso, li udii salmodiare scongiuri o preghiere in arabo e fare segni scaramantici con le mani. Fourier e i suoi due colleghi, rimasti a bocca aperta, sembravano aver perso quella frenesia e si limitavano a restare immobili allungando la testa e il collo verso la nera apertura.
Con la luce in mano penetrai nella stanza, i miei stivali lasciarono sottili e evidenti impronte sulla polvere depositata. Il mio sguardo fu subito attratto dall’enorme sarcofago che dominava il centro della sala, deposto su una base rettangolare in pietra. Tutt’intorno, lungo le pareti ricoperte di dipinti e incisioni, erano disseminati innumerevoli oggetti, casse e vasi di varie forme e dimensioni. Mi avvicinai al centro della sala, mentre anche i tre professori facevano il loro timido e riverente ingresso.
Poco dopo tutti e quattro eravamo intorno al sarcofago centrale. Si trattava di una cassa antropomorfa, probabilmente di legno, ricoperta di dipinti, bassorilievi e, a giudicare dai riflessi della luce, anche da numerose lamine d’oro e argento. Rimanemmo a lungo in silenzio a guardare, poi, senza pensarci troppo, afferrai con le mani i due lati del coperchio dal lato della testa e feci forza. Il coperchio si sollevò senza troppa difficoltà e restammo tutti stupefatti da ciò che si rivelò sotto di esso.
Un corpo avvolto da strati di vecchie bende di lino era disteso all’interno; sul volto poggiava una maschera funebre che risplendette in modo incredibile alla luce che finalmente penetrava dove per così tanto tempo era vissuta solo oscurità. Una incredibile maschera d’oro, argento e pietre preziose che raffigurava un volto di donna, bellissimo e così realistico che sembrava dormisse solamente. La presi tra le mani, quasi ipnotizzato dalla sua bellezza e la sollevai.
Un forte urlo di rabbia mi spaventò. Ci girammo tutti verso l’apertura, attraverso cui spuntava il volto del capo degli scavatori che, urlando in arabo, inveiva contro di noi. Sentii le urla della guardia che cercava di trattenere gli egiziani; mollai la maschera in mano a Deschamp, uno dei due assistenti e rapido tornai all’apertura. Due uomini avevano afferrato il mio soldato per le braccia e il fucile mentre lui cercava di divincolarsi urlando.
Rientrai nell’atrio sfoderando la pistola e la sciabola, cercando di calmarli, ma fu tutto inutile. Uno di loro cercò di aggredirmi con un piccone, spostai indietro il busto evitando il colpo, quindi affondai con la mano destra: la punta della lama gli penetrò nella gola ed egli cadde immediatamente. Altri si avventarono verso di me. Puntai con la sinistra e sparai il colpo a bruciapelo; il colpo rimbombò forte nel basso corridoio e uno degli assalitori cadde con un grosso buco in fronte.
Gettai la pistola sulla faccia di un altro, balzai avanti e ne colpii tre con la sciabola in rapida successione. Intanto il soldato era riuscito a divincolarsi; colpì con il calcio della carabina la testa di uno degli assalitori e la scaricò nel ventre dell’altro. Il secondo sparo e i loro compagni a terra davanti a me dovettero scoraggiarli, così gli scavatori rimasti si misero a correre verso l’uscita. Stavo per partire all’inseguimento quando udii un grido d’orrore dall’interno della stanza del sarcofago.
Rientrai di corsa. Il capo dei lavoranti era riuscito a intrufolarsi dentro durante il combattimento, aveva già colpito il povero Deschamp, che vedevo ora riverso sul sarcofago, e stava ora minacciando il Professor Fourier e il suo collega con un lungo coltello a lama ricurva, che doveva aver tenuto nascosto sotto gli abiti. Non avevo tempo di avvicinarmi; presi la decisione senza pensare e scagliai la sciabola. La lama si piantò saldamente nella sua schiena, lo vidi barcollare indietro e voltarsi a guardarmi; lessi sulle sue labbra una probabile maledizione, poi cadde riverso a terra, morto.
Calciai via il pugnale e estrassi la spada dalla schiena. Mi avvicinai ai due studiosi in piedi; erano scossi, spaventati ma illesi. Deschamp era invece ormai cadavere, la gola tagliata da parte a parte. Il suo sangue aveva ormai ricoperto il volto della mummia e le bende erano diventate rosse, completamente intrise. Sollevai e adagiai al suolo il povero archeologo, voleva sviscerare i misteri dell’antico Egitto e aveva finito per morire nel luogo che anelava così tanto esplorare.
Fuori dal tempio i soldati avevano calmato l’agitazione dei molti scavatori, anche se, quando iniziammo a portare fuori i cadaveri, i volti si fecero scuri e le invettive sempre più forti. Dovetti far respingere la folla oltre il recinto del campo base e minacciare di aprire il fuoco. La situazione parve tranquillizzarsi un poco solo al tramonto. I cadaveri degli egiziani erano stati restituiti ai loro compagni, non senza tensioni, e quello del nostro compatriota riposava in una tenda, dentro una cassa improvvisata, in attesa del funerale che avremmo celebrato la mattina successiva.
La notte calò plumbea sull’accampamento, il numero di guardie raddoppiato e estremamente all’erta. Alte nuvole nascosero la piccola falce di luna che ancora si stagliava nel cielo facendo piombare la valle nella nera oscurità.
Francois Verbier aveva solo diciannove anni. Si era arruolato nell’Armeè più per fame e mancanza di lavoro che per sete di gloria, era sopravvissuto al battesimo del fuoco alla battaglia delle Piramidi, anche se aveva avuto una paura folle; non gli sembrava vero aver avuto la fortuna di essere inviato come scorta per una spedizione scientifica. Ora, tutto solo, di guardia in quella nera, paurosa stanza non era più così convinto della fortuna. Per la centesima volta si guardò intorno, dopo aver sentito l’ennesimo rumore che, come sempre, era probabilmente solo nella sua testa.
La sala era apparentemente immota, come nelle ultime ore. La bassa lucerna, posata nell’angolo vicino all’irregolare foro d’ingresso, creava strani giochi di luce lungo le pareti dipinte, e proiettava l’ombra del sarcofago ancora aperto sul tutto il muro di fondo. Quella cassa gli dava i brividi, soprattutto per quella mummia millenaria adagiata dentro. Aveva dato un occhiata quando era venuto a rilevare Bernard nel cambio turno, e quelle bende secche, disfatte, ora rosse di sangue coagulato l’avevano atterrito. Tornò a voltarsi verso l’apertura e il lungo corridoio che si intravedeva e che conduceva all’esterno; ancora una mezz’ora e all’alba finalmente sarebbe uscito da quella tomba.
Essendosi appena voltato non vide l’ombra scura che lentamente, rigidamente e silenziosamente, passo dopo passo si avvicinò alle sue spalle.