Oggi voglio raccontarvi una storia vera che mi è accaduta qualche mese fa. Ho 18 anni e vivo da solo con mia madre che di anni ne ha 38. Mi ha avuto che era giovanissima e mio padre ci ha lasciati senza prendersi le sue responsabilità. Mia madre è una bella donna, una quarta di seno bella soda, delle cosce favolose e un culo da urlo che fa sempre voltare tutti gli uomini che incrociamo. Per me è più di una madre, è anche un’amica e una confidente. Siamo praticamente cresciuti insieme.
Quel giorno, come succede spesso in casa nostra, si stava preparando per andare al lavoro e girava per casa con i tacchi a spillo e una sottoveste trasparente. Io sono sempre stato attratto da lei. Mi stavo facendo la doccia e lei mi ha bussato per entrare in bagno, quando è entrata mi ha guardato e mi ha detto: ma come sei cresciuto! E io: dai ma, non mi guardare che mi vergogno! Lei aveva uno sguardo malizioso e continuava ad avvicinarsi. Mi guardava il pisello che iniziava a crescere sempre di più. Posso darti una mano a fare la doccia? Mi ha detto facendomi l’occhietto e io.. no no..
aspetta..
non ce la posso fare.
Ci ho provato ma proprio non ci riesco.
Avevo bisogno di distrarmi e ho aperto il mio sito di racconti erotici preferito.
Ho cliccato il primo senza pensarci troppo, ho iniziato a leggere e..
No, non ci riesco proprio.
Forse il titolo doveva farmi insospettire: “la mamma porka”.
Sono mesi ormai che internet non mi da più soddisfazioni.
Ma cos’è che dovrebbe incuriosirmi in un racconto del genere? Forse sono io che sto diventando una lettrice incontentabile, non lo so.
O forse sono io che da mesi ho in testa sempre la stessa fantasia e non riesco a trovare nient’altro che stimoli la mia mente. Niente. Tranne quell’unica folle idea.
Un’ossessione.
Che poi cos’è veramente un’ossessione?
Un pensiero che si insinua nella testa come un sasso in una scarpa. Un fastidio sottile e costante che non ti molla più e non fai altro che pensarci. L’ossessione.
Magari è un’immagine, qualcosa che hai visto di sfuggita e neanche ci hai fatto troppo caso, un seme portato dal vento che cresce, come un virus, e finisce col possederti.
Quando poi a questa ossessione si aggiunge l’aggettivo “proibita” allora sei davvero fregata.
Perché non c’è niente che faccia più gola del proibito. Il senso di onnipotenza che da la trasgressione delle regole, la sovversione della morale.
Altro che racconti erotici.
Io posso farlo? Sì, se ci penso mi rendo conto che posso davvero farlo.
Stesa sul letto con le gambe poggiate contro la parete mi concentro sulla danza nervosa delle dita dei piedi e penso che sì, io posso farlo.
Però forse non dovrei. Non lo so. È un gesto davvero così sconveniente?
Si tratta di un attimo. Una visione fugace. Una distrazione, un incidente per niente casuale, posso farlo? Sì. E dopo?
Cos’è che mi frena davvero? L’idea che potrebbero farsi di me? Forse un po’.
È il giudizio degli altri che spesso ci limita. Ma come conciliare il concetto di giudizio con un istinto così forte, così autentico? Chi decide cosa è giusto e cosa non lo è?
Probabilmente è presuntuoso pensarsi al di sopra delle regole ma io non sono una poco di buono, credetemi.
Io
non
sono
una
poco
di buono!
Ho solo un’idea innestata nel cervello, come una bomba a orologeria. Lo farò? No, non ne avrò mai il coraggio. Eppure.
Rigirarsi lo stesso pensiero in testa per ore è una delle cose più faticose che esistano. Basta, devo sforzarmi di pensare ad altro. Mi alzo dal letto e apro il frigo, fedele yogurt al pistacchio, aiutami tu. Lo assaporo succhiando il cucchiaino rovesciato, come sempre, sperando di trovarci dentro le risposte a tutti i miei dubbi. Le gambe stese sul tavolo che ciondolano al ritmo lento della noia.
“Il ragno non conosce altro tempo che non sia quello della tessitura”.
Può sembrare insensato il suo dondolare, appeso al filo. Ma è da quella danza che nasce la trama della sua minaccia.
Da qualche parte ho letto che la Vedova nera intimorisce le sue prede mostrando loro una macchia rossa brillante, a forma di clessidra, che ha sull’addome.
Piccoli insetti laboriosi, prigionieri del loro istinto predatorio.
Io sono libera.
Libera di realizzare la mia fantasia, se davvero lo voglio, devo solo studiare bene una situazione. La scena la conosco, l’ho vista, ad occhi chiusi, centinaia di volte. Immaginata da ogni angolazione possibile.
Una vittima poi, ci vuole la vittima adatta. Diamine, ci sto di nuovo pensando.
Fuori c’è un mezzo sole annoiato. Anche lui sembra guardarmi e dice: hai deciso o no? Speriamo non piova. Il mese prossimo c’è il matrimonio di Paola e non ho scarpe adatte alla campagna fradicia e infangata. Voglio troppo bene a Paoletta, quel giorno tutto dovrà essere speciale.
Che poi devo ancora andare a parlare col sacerdote, vuole conoscere i testimoni. Che palle! Il sacerdote. Ehi!
Il sacerdote.
Un sussurro mi esce dalle labbra: il sacerdote!
Le mani a coprire la bocca, anche a me sembra assurdo ciò che sto pensando, sto immaginando. Tu sei fuori!
Però a ben pensarci.
Dove lo trovo uno più innocuo di un prete? Una cosa del genere non andrebbe mai a raccontarla in giro, non potrebbe. In parrocchia poi, un incontro formale di pochi minuti e poi.. ops.. una ragazza sbadata. Una “brava” ragazza sbadata.
Tu
sei
fuori!
Adesso rido.
Rido e ho le vertigini. In piedi, sul precipizio di uno scandalo. Punto il cucchiaino verso il cielo: siiii puooooo faaaaare!
Tu
sei scema.
Ho deciso di farlo. Sarà un solo istante. Un piccolo incidente. Ho deciso di farlo e già mi batte il cuore fortissimo. Lo faccio. Lo faccio subito. Dove ho messo il numero? Lo faccio davvero?
Squilla.
Don Massimo?
…
Sì, sono un’amica di Paola, si sposa il prossimo mese nella sua parrocch..
…
Sì..
…
Esatto! Sono la testimone e mi ha detto che prima dovrei parlare con..
…
Sì
…
Beh.. io pensavo di passare oggi pomeriggio se per lei..
…
Alle 18?
…
Dopo la messa allora alle 19?
…
Va bene..
…
Sì
…
Ho già l’indirizzo grazie
…
Certificato di cresima?
…
No.. dovrei cercarlo.. posso portarglielo in seguito?
…
Va bene
…
Grazie allora
…
A più tardi.. Buon..
…
Buonasera a lei.
E adesso? Ti rendi conto di cosa hai combinato? Però mi sento euforica. Agitata ed elettrica. Lo faccio. Sto per farlo.
Rido. Sono nervosa e rido. Ma che mi metto?
Calma adesso. L’abbigliamento è fondamentale.
Sono le 16:00. La parrocchia è a mezz’ora da qui. Col traffico magari un’ora. Ho due ore per prepararmi e, visti i miei tempi, è davvero poco. Via, sotto la doccia.
Il miscelatore piegato verso il rosso, voglio bruciarmi, sono ancora in tempo per annullare tutto.
Migliaia di aghi roventi non riescono però a spegnere l’adrenalina che mi scorre dentro.
L’acqua che mi cade addosso mi da forza, coraggio. L’acqua, mi da vita.
Io sono libera. Lo ripeto, lo canto, lo grido.
Io sono libera.
Esco dalla doccia e afferro il mio asciugamano, lo friziono sulla pelle umida provando a strappare via brandelli di tensione. Passo la mano sullo specchio appannato e vedo emergere dalla nebbia la mia alter ego, che mi fissa, con occhi che già non sono più i miei.
Un istante solo. Magari neanche se ne accorge. Ma se non se accorge mi vuoi dire che gusto c’è? Allora una via di mezzo, vede ma non capisce bene cosa sta succedendo. E soprattutto deve prenderlo per un incidente innocente. Una brava ragazza. Appena un po’ distratta.
Mi fiondo in camera e ancora completamente nuda apro l’armadio, afferro sette/otto capi d’abbigliamento e li lancio sul letto a casaccio. Poi li osservo, con le mani sui fianchi e provo a comporli. La gonna viola a portafoglio con il top bianco? Troppo corta la gonna. No. Scartata. Stessa maglia ma con la gonna nera a tubino? Un po’ più seria diciamo. Mmm.. Forse. Il top però non mi convince. Voglio un look classico e pulito, che non attiri troppo l’attenzione. Non devo rimorchiare nessuno, ci mancherebbe. La camicia chiara in chiffon con il colletto piccolo, un po’ retrò? Carina! Allora, sotto, la longuette che arriva quasi al ginocchio, sempre nera. Li provo!
Sì. Educata e delicata. Perfetto.
Le calze? L’aria è decisamente fresca, ci vogliono e so già cosa scegliere. Autoreggenti chiare con la balza in pizzo.
Se c’è una cosa che adoro fare è indossare le calze e non è per banale vanità. È il gesto che mi emoziona. Infilare il piede nudo in quel nido soffice e poi srotolarlo con cura, lasciarsi avvolgere la gamba da quella carezza velata, sì, mi piace guardarmi quando mi metto le calze, è davvero così strano?
Mancano le scarpe. Assolutamente non troppo alte. Voglio dare l’idea di un’autentica, innocua, educanda. Ogni volta che ho immaginato questa scena, l’ho immaginata proprio così.
Parigine chiuse con poco tacco, direi proprio che ci siamo, eleganti senza essere vistose.
Un filo di trucco.
I capelli legati con una piccola crocchia, ovviamente.
Rimetto i miei occhiali da vista, montatura scura, mi guardo.
Tu sei una pazza, pare dirmi l’altra me.
Tu sei una pazza incredibilmente sexy.
Borsa nera, cappotto, che ore saranno? Io vado.
Il cielo è grigio, forse pioverà, salgo in macchina e parto. C’è un po’ di traffico e io ho il tempo di respirare. Ma quanto tempo è che non respiro? Stai calma è un solo istante. Io mollo tutto e torno a casa. Oppure no, vado lo stesso ma non faccio niente. Proprio ora che ci sono? Vado, lo faccio e basta.
E se fosse proprio il nostro, di giudizio, a preoccuparci di più? Ho mille pensieri in testa, cos’è che voglio davvero? Dove stai andando? Scema, dove stai andando?
Neanche me ne accorgo e sono già davanti alla parrocchia. Non ho più tempo di pensare. Ora devo agire.
C’è una piccola porta di legno accanto all’ingresso della chiesa. Provo a spingerla appena, è aperta, c’è nessuno? Davanti ai miei occhi si allunga uno scenario da film fantasy. Un lungo corridoio scuro pieno di porte chiuse. Dove devo andare ora? È in quell’istante che appare sullo sfondo un orco. Un orco femmina che tiene in mano un gigantesco mazzo di chiavi e mi osserva, senza dire niente.
Sto.. cercando Don Massimo ho.. un appuntamento. Lo dico incerta con le gambe improvvisamente fragili.
Dove diavolo è finita la mia alter ego ora che ho più bisogno della sua voce?
Prego. Mi fa l’orchessa con una voce sorprendentemente squillante.
Mi incammino per il lungo corridoio e arrivo davanti a quella strana signora portatrice di chiavi. Da questa parte mi dice. Entro in un piccolo ufficio austero, mobili di legno scuro illuminati da un neon orrendo. Massimo arriva subito. Lo dice così, come fosse suo fratello, senza neanche usare il “don”.
Sono sola adesso. Tutto avverrà qui.
Studio l’ambiente.
Il prete si siederà lì. La ragazza impertinente si accomoderà proprio di fronte, quella è la mia sedia. La prendo e la sistemo un po’ calcolando velocemente le distanze. Ci sono. Mi siedo. Aspetto.
Passano minuti interminabili in cui la folla di pensieri che ho dentro urla a voce troppo bassa perché io capisca più qualcosa. Sono partita ormai. Sto ballando. Abbasso lo sguardo e vedo il mio petto che si gonfia e sgonfia d’aria a un ritmo troppo veloce. Calmati, mi dico.
Un rumore lieve dietro le mie spalle che quasi mi spaventa.
La voce profonda di un uomo che ringrazia l’orchessa e le comunica qualche informazione logistica che non afferro. Orari, appuntamenti, faccende da prete immagino.
Mi sollevo dalla sedia e riesco a dire solo buonasera mentre Don Massimo mi illumina con un sorriso cordiale e accogliente.
Avrà poco più di quarant’anni. Indossa il classico completo scuro con tanto di colletto bianco d’ordinanza, sembra uscito da un film. Una barbetta curata circonda un viso pulito e rilassato. Ha qualcosa che non so decifrare, come fosse una maschera invisibile. Un sacerdote, mi dico, è un uomo con una maschera addosso. Un maschio che fa finta di non esserlo. Atteggiamento simpatico e vagamente forzato. Mi guarda e non mi vede, forse. O forse ha solo imparato a registrare le presenze femminili senza mostrare il benché minimo interesse. È un uomo strano ma è pur sempre un uomo, no? Lo scoprirò fra poco.
Ci sediamo e dopo le presentazioni inizia un lungo monologo che ascolto e non seguo, limitandomi ad annuire con finto interesse.
L’importanza del matrimonio e del mio ruolo di testimone. La necessità di rendere ogni cosa speciale per il bene degli sposi. Mi chiede se sono sposata, se frequento la chiesa. Rispondo sempre di no. Lui sorride e mi dice che non è un problema poi parte a raccontare lo svolgimento della cerimonia, nei minimi dettagli. È tutto soffocante. L’ufficio, l’aria che stiamo respirando e il suono monotono della sua voce. Ogni cosa mi mette a disagio, ma cosa ridi? Gli chiedo senza parlare. Gli ultimi dubbi che avevo si spengono nel desiderio di riportare un po’ di vita qui dentro. Di far vedere a questo uomo mascherato che so benissimo di piacergli, anche se fa di tutto per dimostrare il contrario. Ho le mie armi, le conosco bene ormai e soprattutto ho il mio colpo a sorpresa, caro Don, sei sulla mia linea di tiro, fra poco ti faccio fuori.
Già ma come? Tutti i preparativi fatti, le prove davanti allo specchio, la visione ripetuta della scena di quel vecchio film, tutto svanito. Sono sul bordo del precipizio e ho perso le ali. Lui continua a parlare e la mia pancia brucia, inspiro imbarazzo ed espiro follia.
Poi arriva Mick Jagger a salvarmi.
Lo sento cantare dentro la mia borsa. Il mio cellulare sta squillando.
L’architettura di una ragnatela richiede passi lenti e misurati.
Occorre però un salto nel vuoto per intrecciare fili di seta.
E io mi butto.
Mi scusi, gli dico con un filo di voce impercettibile.
Tutto succede, adesso.
La gamba sinistra accavallata sulla destra si muove.
Si solleva lentamente mentre il peso del mio corpo si sposta, verso la borsa che canta.
Contraggo i muscoli per un movimento semplice e abituale, ripetuto milioni di volte.
La coscia si stacca dall’altra e proietta il mio piede verso terra.
Scavallo le gambe e le affianco una all’altra.
Io sono libera.
E la libertà è una cosa pericolosa.
Mi chino sul fianco per raccogliere il telefono e nel farlo le gambe si dividono.
Prima pochi centimetri poi sempre di più, decisamente più di quanto ne avrei davvero bisogno. Ho un solo colpo nel fucile, non posso sprecarlo.
Non posso vedere la sua faccia ma so che sta guardando, lo sento.
Le mie ginocchia si aprono lentamente come un sipario di nylon. L’orlo della gonna si tende, come un elastico e risale piano lungo le cosce. Sono piegata di lato e con un ultimo goffo movimento le divido definitivamente. Sono una ragazza sbadata Don, mi dispiace davvero tanto.
Le gambe aperte lo invitano a guardarci in mezzo, come fossero i lunghi petali di un fiore che si schiude, a seguire il sentiero velato delle calze, oltrepassare il ricamo fine della balza per poi lanciarsi in picchiata verso la carne viva e nuda. Forse un po’ troppo, nuda.
Don Massimo è in religioso silenzio e mentre rispondo al telefono do un ultimo colpo di anche.
Faccio fuoco.
Io non sono una poco di buono.
Sono solo una ragazza distratta.
Sbadata.
E forse, qualcuno potrebbe dire, anche un po’ troia.
Adesso l’uomo non può non sapere che la sua ospite ha dimenticato di indossare le mutandine e gli mostra, accidentalmente, una visione oscena ad alta definizione della sua fica depilata, segnata da una piccola striscia di peletti scuri che sale delicatamente sul ventre. Calda e umida. L’occhio di fuoco di una candela che lo fissa e lo scioglie come cera.
È un attimo.
Parlo al telefono come se niente fosse, senza pensare neanche per un secondo a chiudere le cosce. C’è un’energia fortissima in questa stanza, come fosse il mio corpo a illuminare ogni cosa. Mi volto appena e lo guardo adesso, faccio un cenno con la mano come a dirgli che ho quasi finito.
Lui è scomparso. È davanti a me eppure non c’è più. Con lo sguardo che oscilla e passa in rapida successione dai miei occhi alle labbra lucide della mia fica dischiuse in una sorta di bacio soffiato. Non riesce a non guardare. Non vuole non guardare.
Io, sono, la Vedova nera.
L’avresti mai detto Don? Una così brava ragazza che arriva dal nulla e con gesto così semplice ti strappa la maschera di dosso.
Starei così ancora a lungo.
Mi sento viva.
Mi sento porca.
Mi sento il centro caldo di tutti i peccati del mondo.
Ma ogni secondo che passa toglie credibilità alla mia finzione.
La gamba destra si muove e imitando il percorso appena fatto dalla sinistra si solleva e chiude il sipario definitivamente.
Ciao mamma, ti richiamo più tardi, ora sono impegnata.
Sono impegnata a mostrare le mie grazie per un capriccio, vorrei dirle, per il mio unico assurdo piacere ed è come se avessi tutti i riflettori puntati su di me. Su questo piccolo palcoscenico adesso esisto solo io. Io e la mia sfacciata voglia di esibirmi, finalmente appagata agli occhi del più insospettabile degli spettatori.
Ma mia madre non capirebbe. Forse nessuno di voi ci riuscirebbe.
La nostra conversazione è conclusa. Il mio gioco anche. Mi concedo un ultimo numero da grande attrice, afferro l’orlo della gonna e lo abbasso, stirandolo sulle gambe, con la premura di chi non vuole mostrare niente di inopportuno. Da qualche parte, nella mia testa, qualcuno sta applaudendo.
Lui bisbiglia ancora qualcosa con una voce nuova, meno accogliente e leggermente incrinata.
Ho vinto io, ora chi è dei due a essere a disagio?
Mi alzo dalla sedia e gli tendo la mano per salutarlo.
Mi diverte notare che me la stringe senza alzarsi in piedi, forse ha qualcosa da nascondere, ci vediamo al matrimonio, gli dico uscendo dall’ufficio.
Fuori dalla parrocchia il cielo è già scuro. Mi riempio i polmoni di aria fresca mentre una pioggia leggera mi bagna la faccia. L’acqua, mi da vita.
Sono di nuovo in macchina e nello specchietto retrovisore vedo due occhi scintillanti e eccitati, gli occhi di una bambina dispettosa.
Mi infilo una mano fra le cosce, c’è ancora qualcosa che manca, la risposta a tutte le mie domande. Quando la tiro fuori dalla gonna me la porto vicino agli occhi. Le mie dita brillano e il loro profumo è inconfondibile.
Scoppio a ridere come una scema. Pazza e insolente. Sei una deficiente lo sai?
Rido e afferro forte il volante. Scarico tutta la tensione accumulata e metto in moto.
“L’unico modo per liberarsi di una tentazione è cedervi”
Oscar Wilde
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